Crawford è molto netta:
Chiedendoci «Perché usare l’intelligenza artificiale?» possiamo mettere in dubbio l’idea che tutto debba essere soggetto alle logiche della previsione statistica e dell’accumulazione di profitti, ciò che Donna Haraway chiama «informatica del dominio».
Vediamo barlumi di questo rifiuto quando le popolazioni scelgono di smantellare la criminologia predittiva, di vietare il riconoscimento facciale, o di contestare la classificazione algoritmica. Finora queste vittorie minori sono state frammentarie e localizzate, spesso concentrate in città con più risorse per organizzarsi (…).
Esse tuttavia sottolineano la necessità di movimenti nazionali e internazionali più ampi che rifiutino approcci basati sulla tecnologia e si concentrino sul contrasto alle inequità e alle ingiustizie sottostanti. Il rifiuto impone di respingere l’idea che gli stessi strumenti che servono il capitale, le forze armate e la polizia siano adatti anche a trasformare scuole, ospedali, città ed ecologie, come se fossero calcolatori valorialmente neutri applicabili ovunque.
Gli appelli in favore di lavoro, clima e giustizia sui dati sono più potenti quando si saldano tra loro. Soprattutto, scorgo una grande speranza nei crescenti movimenti per la giustizia che si dedicano all’interrelazione tra capitalismo, calcolo e controllo, armonizzando questioni di giustizia climatica, diritti del lavoro, giustizia razziale, protezione dei dati e superamento del potere delle forze di polizia e dei militari.
Rifiutando i sistemi che amplificano la disuguaglianza e la violenza, sfidiamo le strutture di potere che l’IA attualmente rafforza e creiamo le basi per una società diversa.
Come osserva Ruha Benjamin, «Derrick Bell ha detto così: “Per vedere le cose come sono realmente, devi immaginarle per quello che potrebbero essere”. Siamo creatori di modelli e dobbiamo cambiare il contenuto dei nostri modelli esistenti».
Per farlo sarà necessario scrollarsi di dosso gli incantesimi del soluzionismo tecnologico e abbracciare solidarietà alternative, quella che Mbembe chiama «una politica diversa dell’abitare sulla Terra, di riparare e condividere il pianeta».
Esistono politiche collettive sostenibili distinte dall’estrazione di valore; ci sono beni comuni che vale la pena mantenere, mondi al di là del mercato e modi per vivere al di là della discriminazione e delle pratiche di ottimizzazione brutali. Il nostro compito è tracciare una rotta in quella direzione.