Il titolo dell’articolo riprende la formulazione che ho sentito usare qualche giorno fa in un dibattito.
Questa pseudo-condivisione concettuale è basata su un implicito vago e nebuloso e testimonia con forza quanto l’analisi sia – purtroppo – troppo spesso e troppo diffusamente superficiale e fuorviante.
I dispositivi digitali – portatori di disposizioni, cioè di approcci, indirizzi, obiettivi, vincoli, potestà, poteri, metodi, procedure, protocolli, regole, vantaggi, rischi e così via – vengono infatti derubricati a strumenti, con una riduzione lessicale approssimativa ma auto-rassicurante, dal momento che non coglie – anzi, quasi rifiuta e nega – la complessità della situazione, arrivando a volte ad affermare che può essere ampiamente sufficiente un sano intervento del buon senso.
Del resto, questa ingenuità di fondo – per non dire di peggio – ha animato buona parte del dibattito nel primo anno del distanziamento delle pratiche didattiche.
Non è così: “la tecnologia” in quanto tale non esiste, così come “il digitale”.
Sono in campo piuttosto dispositivi digitali a vocazione estrattiva e intenzione capitalistica, con strategie rivolte all’accumulazione di profitti, che costituiscono il mainstream operativo e culturale adattivo e costruiscono l’immaginario adattato, in cui la conoscenza è risorsa dell’economia di mercato competitiva.
A questo universo tecnocratico si oppone e contrappone un pluriverso di nicchie di dispositivi etici, aperti, autenticamente cooperativi, a vocazione emancipante, dei singoli e dei nuclei sociali, che concepisce la conoscenza come risorsa collettiva per lo sviluppo umano.
O da una parte, o dall’altra.

[…] “è soltanto demagogia”, “è soltanto un momento di crisi”, “è soltanto uno strumento“, è la banalizzazione di una situazione, di un processo, di una condizione, di un processo e […]
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