Foto sociali

Immagini quotidiane scattate per essere condivise, spesso elaborate con software e base di osservazioni esterne: like, tag, follower e altre forme di feedback digitale.

Chiarisce Esposito

Diversi studi hanno indicato il passaggio dalla memorizzazione alla comunicazione come l’uso primario della fotografia nell’era digitale. (…) [Nella tradizione analogica] ciò che l’immagine ha congelato e conservato è stata la prospettiva del pittore che l’ha dipinta o dell’osservatore che ha scattato la foto, salvando dall’oblio il punto di vista di qualcuno per un momento. (…) [Con la fotografia digitale]l’abbondanza di immagini favorisce un modo diverso di gestire la caducità e la presenza nell’era digitale. Cosa cambia con una produzione costante di immagini a costo quasi nullo e con possibilità di archiviazione praticamente illimitata? Apparentemente possiamo riprodurre tutto e, in teoria, conservare queste riproduzioni per sempre perché le immagini digitali sono archiviate nei servizi cloud, in una forma virtuale che non richiede spazio fisico o molte spese per l’utente. Le immagini possono anche essere richiamate per un capriccio quando vogliamo ricordarle. Nella forma di un’immagine digitale, apparentemente nulla è perso. Se c’è un eccesso di immagini nel mondo digitale, il problema non è semplicemente il loro gran numero. Conservazione e recupero erano infatti le due grandi sfide che le persone tradizionalmente dovevano affrontare per non perdere i ricordi: riuscire a conservarli e poterli ritrovare nel labirinto di spazi mnemonici che rischiavano di diventare affollati e ingestibili. Entrambi sono risolti dalla tecnologia digitale, che offre spazi di archiviazione praticamente inesauribili e strumenti di recupero che ci consentono di trovare tutto ciò che abbiamo archiviato senza che il contenuto si perda in un eccesso di ricordi, anche i ricordi che non avevamo ricordato. Usando i tag su Instagram, ad esempio, possiamo trovare tutte le immagini che abbiamo memorizzato, e anche taggare aspetti che non ci siamo accorti in quel momento ma che sono stati segnati da altri. Inoltre, le recenti tecniche di machine learning hanno sviluppato algoritmi in grado di produrre autonomamente i propri tag, per gestire il passato da prospettive a cui nessuno ha ancora pensato e generare nuove informazioni. È questo il motivo per cui si fotografa tutto: per preservare l’esperienza e rafforzare la memoria? Approfondire il nostro rapporto con le cose sottraendole all’oblio, per poter poi tornare indietro e rivederle? (…) Invece di affrontare la vastità e i rischi di un’esperienza, l’utente digitale la congela in un’immagine e la pubblica sul web. Lo sappiamo tutti: molti visitatori in mostra non si fermano a guardare un dipinto, assorbendo la molteplicità di prospettive racchiusa nell’opera, insieme alla specificità del luogo nella stanza, la luce, lo spazio, la posizione, e il momento presente: non si espongono a queste esperienze. Invece di guardare, l’utente digitale scatta fotografie e fa lo stesso davanti a un tramonto, un paesaggio, un piatto in un ristorante. Come ha già osservato Susan Sontag, “Le immagini sono in grado di usurpare la realtà”. 15 Perché le persone lo fanno? Sarebbe riduttivo liquidare queste pratiche come superficiali e frivole. Tali comportamenti diffusi segnalano un cambiamento più profondo di prospettiva e di orizzonte, un nuovo approccio culturale che deve essere preso sul serio. I turisti digitali non sono stupidi né ignoranti, ma hanno un rapporto diverso con le immagini e la loro gestione. Non producono un’immagine per preservarla dal corso del tempo, la producono per sfuggire al presente. Questo atteggiamento può essere ricondotto alla “società del rischio” che sovraccarica il presente di responsabilità per la costruzione del futuro. Il “rischio” in questo senso non è una condizione futura, ma un problema del presente, generato quando molte possibilità sono disponibili e ci chiediamo oggi se e come il futuro che dovremo affrontare dipenda dal nostro comportamento attuale. (…) L’elaborazione del presente è affidata alla sua riproduzione (non è compito del presente) e riferita ad altri, gli altri con cui il web ci connette. (…) La produzione di un’immagine, infatti, di solito non viene fatta per essere archiviata, ma per essere postata. Snapchat è l’esempio di questo uso digitale delle immagini, di scattare una foto solo per metterla sul web, cioè per mostrarla agli altri. Questa è la forma di riproduzione attuata nel mondo digitale: l’obiettivo è la moltiplicazione sociale, non la conservazione temporale. L’immagine non viene prodotta per vederla meglio né per poterla rivedere in seguito, ma per farla vedere agli altri. E dopo averlo visto, può essere rimosso dalla circolazione, come è vero per Snapchat. Gli utenti digitali non guardano le cose e non vivono direttamente le esperienze: curano le esperienze per condividerle con gli altri e per mostrarsi osservandole, sembrando costruire un’identità nel farlo. (Elena Esposito, “Artificial Communication. How Algorithms Produce Social Intelligence”, MIT Press – rilasciato in Creative Commons, CC-BY-NC-ND)

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