Descrivere le tecnologie digitali come prodotti sociali e svelarne le ambiguità in modo emancipato e con scopo emancipante è dovere politico-culturale di una critica radicale della "platform society", capace di decostruire mediante cortocircuiti concettuali l'inganno tecno-liberista della "società della conoscenza sorvegliata".
[Gli] pseudonimi, con cui un artista si fa conoscere [in rete] al proprio pubblico, sono diversi dagli pseudonimi tradizionali, dai nomi d’arte o dalle maschere che (…) indossiamo per presentare i diversi aspetti della nostra individualità. Come tutti gli altri, gli artisti elettronici possiedono un’individualità, anche se implica molteplici rappresentazioni, e ne sono consapevoli. Attraverso i loro pseudonimi, tuttavia, sperimentano costruzioni di identità digitali alternative che non gli appartengono pienamente poiché il loro pubblico contribuisce a costruirle. Gli alias sono “identità proiettate”, “palloni di prova” lanciati nel mondo digitale per produrre feedback che gli artisti possono riconoscere ed elaborare. Attraverso i loro pseudonimi, gli artisti imparano chi sono dalle loro interazioni con il pubblico, un processo di cura continua che porta le identità digitali a cambiare, consolidarsi o addirittura scomparire. [Questo tipo di pseudonimo è]Èautentico come qualsiasi altro (….) o come una qualsiasi delle cosiddette etichette bianche con cui gli artisti elettronici pubblicano brani con identità anonime. Le audience digitali possono inoltre sfruttare l’intervento degli algoritmi nella comunicazione per sperimentare attivamente forme innovative di appartenenza e distacco, riconoscimento e rifiuto.(Elena Esposito, “Artificial Communication. How Algorithms Produce Social Intelligence”, MIT Press – rilasciato inCreative Commons, CC-BY-NC-ND)