Indicatori biosociali in merito all’uso di tecnologie

Gallino argomenta:

(…) ci si può chiedere quale rapporto vi sia tra decisioni tecnologiche e indicatori biosociali. Una tecnologia viene normalmente scelta da un attore sulla base d’un bilancio preventivo dei costi che comporta e dei benefici che arreca (…) alla luce di una rispettabile razionalità locale. (…) [Per perseguire la] razionalità globale (…) sarebbe necessario che (…) gli individui, le organizzazioni produttive e i centri di governo (…) facessero ricorso, nei loro calcoli, a nuovi tipi di indicatori aggregati sia dei costi sia dei benefici della tecnologia. Detti indicatori dovrebbero comprendere parametri che di norma non sono inclusi nei processi di scelta dei decisori tecnologici, e soprattutto dovrebbero sfuggire alle presupposizioni insite nei convenzionali parametri economici. (…) In base a tali parametri, è stato osservato, può accadere che il PIL di un dato paese faccia registrare un gran balzo in avanti perché in un certo anno milioni di persone hanno perso un arto in incidenti tecnologici, dando così uno straordinario impulso alla produzione di membra artificiali e di servizi medici e paramedici. (…) . si possono concepire due strade diverse per la costruzione di indicatori aggregati dei costi e dei benefici della tecnologia. Una consiste nell’includere, fra i costi, anche i costi umani e il carico ambientale, e nel ponderare i benefici con una valutazione della loro distribuzione in una popolazione. Questa è la strada imboccata dagli autori dell’indice Daly-Cobb del benessere economico sostenibile (…). Un’altra strada consiste invece nel ragionare in termini di unità di adattamento individuale (UAI, o «Darwins»). [Tra i costi umani possiamo considerare le vittime di incidenti,] (…) il carico psicofisico a cui una tecnologia assoggetta coloro che la impiegano, o che vengono forzatamente a contatto con essa, (…) l’inquinamento delle acque, dell’atmosfera e del suolo mediante qualsiasi tipo di sostanza nociva o di radiazioni, e la distruzione di beni ambientali non rinnovabili, ivi comprese non soltanto le materie prime ma anche beni come il paesaggio, i centri storici, i biotopi. Dal lato dei benefici, il primo parametro da inserire in questo tipo di indicatore sarebbe la speranza di vita, alla nascita e a diverse età. Questo indice presenta il vantaggio di essere esattamente calcolabile per strati sociali, gruppi etnici, fasce di età, professioni; per contro, oppone la difficoltà di essere difficilmente disaggregabile ai fini dell’imputazione a determinate tecnologie. (…) Un secondo parametro (…) dovrebbe essere il livello di vita, che misura le possibilità di fruizione dei beni e dei valori riconosciuti in un dato sistema sociale. Tra i suoi parametri, nelle società occidentali, rientrano naturalmente il reddito, l’istruzione, i consumi primari e secondari, la qualità dell’abitazione, il tempo libero. Il collegamento del livello di vita di uno strato sociale o professionale con una determinata tecnologia è in genere accertabile, così come è accertabile la relazione tra DTP e livello di vita medio. In questo tipo di indicatore, tuttavia, tanto la speranza di vita che il livello di vita vanno ponderati con la loro distribuzione all’interno di una popolazione. Se questa è fortemente asimmetrica, il valore medio dell’indicatore scende di parecchi punti. (…). [Con un] procedimento (…) controintuitivo,(…) [possiamo] includere tra i benefici, anziché tra i costi, gli investimenti in capitale umano indotti direttamente o indirettamente da una determinata tecnologia. Tra i costi vanno inclusi soltanto gli investimenti in capitale fisico. L’inclusione di questo parametro in un indicatore biosociale inteso a valutare le conseguenze della tecnologia per una data popolazione assume particolare importanza ove si consideri che l’attuale sottosviluppo economico di gran parte di quello che fu il Terzo Mondo – in specie l’Africa – ha alla radice la riallocazione fisica di tecnologie europee, avvenuta nel secolo scorso e nei primi decenni di questo. Essa non fu accompagnata da alcun apprezzabile investimento in capitale umano, ciò che rese impossibile alle popolazioni locali sviluppare una propria industria, adatta alle condizioni locali. Oggi come ieri, esse debbono importare, preconfezionata, una tecnologia che raramente sono in grado di produrre, ed è inadatta rispetto ai loro bisogni. Un indicatore fondato sul concetto di UAI (…) è impostato in modo differente (…) [e] parte dalla nozione di adattamento biosociale, (…) la capacità di un individuo di svolgere normalmente un ruolo attivo nella società per un anno. Una popolazione di 50 milioni di individui dispone così, in astratto, di 50 milioni di UAI o «Darwins». Se in essa tutti svolgessero normalmente un ruolo attivo per un anno, l’indicatore UAI sarebbe uguale a 1. Ma dalla quota iniziale di UAI vanno detratti tutti coloro che, per frazioni più o meno lunghe di un anno, non hanno la possibilità materiale di svolgere un ruolo attivo: i disoccupati, i poveri, i malati, gli anziani non autosufficienti, i bambini affetti da tare dello sviluppo, i disabili, gli affetti da denutrizione, i tossicodipendenti, i carcerati. Con la detrazione di tale quota di popolazione, l’indicatore UAI può scendere, a seconda dei casi, a 0,9, 0,8, 0,7… Un indicatore di questo tipo si presta efficacemente a valutare le differenze tra aree geografiche di uno stesso paese. (…) A conclusione di questo paragrafo va sottolineato che la costruzione e l’impiego di indicatori biosociali del tipo indicato ha scarse relazioni con il technology assessment (TA) (…) [che] è di norma orientato alla valutazione dell’impatto di una determinata tecnologia sull’occupazione e la produttività; sul livello di istruzione; sulla qualità della vita di lavoro; sulle prospettive occupazionali delle donne e delle minoranze etniche. Può essere quindi possibile e utile applicare i risultati di un particolare TA alla costruzione di un indicatore tipo ISEW o UAI, ma in questi ultimi è d’obbligo inserire molti altri parametri che sono di norma estranei alle tecniche di TA. (L. Gallino, “Tecnologie e democrazia. Conoscenze tecniche e scientifiche come beni pubblici”, Einaudi)