Secondo Lovink è una delle caratteristiche fondamentali del negligente dibattito pubblico sugli effetti negativi dispositivi digitali. Di conseguenza, manca un piano politico per modificare l’attuale architettura di internet.
[Per altro la] critica accademica sembra capace di produrre solo rivelazioni tardive senza conseguenze. L’internet theory è destinata ad arrivare sempre tardi (…). Solo collocandosi in una posizione temporanea di outsider della critica possiamo scoprire i limiti delle prospettive precedenti. Invece di forgiare una tecno-immaginazione radicale focalizzata sullo sviluppo di alternative, veniamo distratti da un carosello infinito di nuovi sviluppi tecnologici: big data, automazione, intelligenza artificiale, riconoscimento facciale, credo sociale, guerra informatica, ransomware, internet delle cose, droni e robot. La lista crescente di doom tech impedisce agli utenti di sognare collettivamente e mettere in atto ciò che conta di più: le loro versioni alternative del tecno-sociale. (…) Se la valanga di studi sulla tecnologia è così facile da ignorare è perché la critica, la discussione e il dibattito sono ritenute categorie ormai superate. Sono un residuo dell’era dell’opinione pubblica, in cui diversi strati sociali lottavano per conquistare l’egemonia ideologica. (…) [L’autoritarismo tipico del neoliberismo statunitense secondo cui chi gli si oppone e ne rifiuta i dogmi è un nemico, un terrorista interno, un fanatico e così via] spiega l’assenza di un “foro pubblico” aperto e democratico in tutte le piattaforme, l’enfasi su amici e follower nonché l’ansiosa gestione dei “troll” che devono essere cancellati, filtrati, bloccati, banditi, rieducati, incarcerati, estradati e, in ultima analisi, sterminati. Queste premesse progettuali di base hanno reso difficile, se non impossibile, parlare di social media in relazione al principio della democrazia deliberativa. (…) Servirà un cambiamento di paradigma ancora sconosciuto per smettere di trattare le esperienze umana alla stregua di una materia prima gratuita. (…) la maggior parte dei gruppi autonomi e dei centri sociali utilizza ancora Facebook per annunciare le proprie attività (…) la rete “Unlike Us” (…) fondata (…) nel 2011 allo scopo di accompagnare la critica dei social media alla proposta di alternative (…) non è mai veramente decollata (…) [e anzi] è stata accantonata nel 2020- (…) Mentre l’elenco delle app alternative continua a crescere, come possono gli attivisti essere così apertamente cinici nei confronti delle proprie alternative? E cosa ci dice del livello di regressione delle società occidentali, se anche gli attivisti più impegnati sono così permissivi nei confronti di Facebook? Si tratta di pigrizia? La paura di restare isolati è giustificata ? (…) Al giorno d’oggi i principi fondamentali delle reti – decentralizzazione, distribuzione, federazione- suonano grandiosi ma idealistici e del tutto irrealizzabili. (…) Dal punto di vista concettuale, l’inizio del web 2.0 è stato segnato dalle “reti a varianza di scala” dove le distribuzioni obbediscono alla legge di potenza (…) [Afferma Brian Holmes] “i teorici dei media (…) proiettavano l’idea che, a patto di costruirlo con i software liberi, il sistema mediatico computerizzato avrebbe rappresentato una rottura netta con il passato: Un’improvvisa liberazione dai canali corporativi manipolati che per tanto tempo avevano impedito l’auto-organizzazione spontanea appunto ed ecco l’altro fatto: non era vero”. (…) Sappiamo scambiare informazioni e comunicare, ma è ora di farli in contesti orientati a una causa. Non abbiamo bisogno di aggiornamenti. (…) Che cosa succederà si decideremo di compiere uno sforzo imponente e smantellare le piattaforme “gratuite”, compresa la loro cultura del comfort inconscio, per diffondere degli strumenti veri e propri, accompagnati dalla conoscenza su come usarli e mantenerli? La tecnologia è diventata una parte essenziale della nostra vita sociale e non dovrebbe essere esternalizzata. Sarà possibile solo dando priorità alla alfabetizzazione digitale (che nell’ultimo decennio è andata a rotoli). La società paga un prezzo elevato per la praticità degli smartphone. (…) Qualsiasi teoria critica di Internet capace di offrire una via di fuga è quasi scomparsa, svanita nella zona grigia degli articoli delle riviste con paywall e dei libri dal costo esorbitante (disponibili, ovviamente, su Amazon). (…) Le aziende di Big Tech in pochi anni sono riusciti a instillare nel pubblico (…) [l] idea (…) [del] realismo delle piattaforme. Molti non riescono a immaginare come la comunicazione globale, i media, la ricerca e via dicendo possano funzionare senza le piattaforme. Nonostante i crescenti malesseri che causano, per molti è difficile pensare un mondo senza le piattaforme delle big tech come una concezione praticabile di futuro. (…)
(G. Lovink, “Le paludi della piattaforma. Riprendiamoci internet”, Nero editions)