Arte AI

Manovich definisce l’arte AI come:

Un tipo d’arte che noi umani non siamo capaci di creare a causa delle limitazioni del nostro corpo, del nostro cervello e di altri vincoli. Una delle possibilità (…) è rappresentata da oggetti, media, situazioni di esperienza generate da computer che non hanno la sistematicità e la prevedibilità propria delle arti umane – ma che non sono nemmeno casuali, non giustappongono meccanicamente elementi solo in scopo di creare scalpore, e non sono soltanto casi di “estetica del montaggio”. Questi artefatti saranno invece caratterizzati da una sistematicità altra, che non abbiamo ancora avuto occasione di esperire neanche nella musica, nella scultura, nell’architettura, nella fotografia o in altre espressioni artistiche moderne e più radicali. (L. Manovich, “Definire l’arte AI” – “AI & Conflicts 01”, Krisis Publishing).

Prima di arrivare a questa conclusione, l’autore propone di adattare il famoso test di Turing all’arte AI: qualora una storico dell’arte scambiasse un oggetto prodotto da un computer per un’opera originale di una certa epoca, l’autore artificiale supererebbe il test.

In prima istanza, infatti, Manovich definisce l’arte AI come il prodotto di un’intelligenza artificiale che viene riconosciuto da professionisti come un valido esempio di arte storico contemporaneo.

Questo per dimostrare immediatamente la fragilità di questo approccio. In primo luogo non esistono definizioni di arte accettate e condivise da critici, filosofi, sociologi, teorici: il ventesimo secolo e, anzi, segnato da una sistematica problematizzazione di ciò che può essere definito arte.
Ne consegue che se da una parte è possibile ampliare i confini di ciò che chiamiamo arte, dall’altra, per capire e analizzare, è necessario conoscere storie e sviluppo fino al presente delle produzioni artistiche, approccio che mai nessuno ha tentato con un computer. La maggior parte degli sperimentazioni di tecniche AI in campo artistico si affida piuttosto, secondo Manovich, a una concezione dell’arte conservatrice, imperniata sulla simulazione dell’arte storica e incapace di conseguenza di espandere i confini di ciò che chiamiamo arte. Inoltre, il computer è utilizzato in un campo artistico e nel design per la scrittura di programmi capaci di generare diversi media (testi, immagini, video, forme 3d, graphic design, loghi, progetti urbani, musica e così via); le applicazioni seguono istruzioni precisea volte integrate con parametri casuali: siamo di fronte al design procedurale, generativo o parametrico. Dopo il 2010 è diventato popolare il paradigma basato su machine learning e deep learning, fondato sulle reti neurali (singola rete, GAN, style transfer), che estraggono una struttura da un’insieme di artefatti culturali per generarne di nuovi. Ma in tutti questi casi è necessario che l’autore umano compia delle scelte e delle attività di controllo: progettazione dell’architettura neurale e dell’algoritmo di allenamento, creazione del dataset per il training, selezione degli artefatti che considera più congruenti e coerenti convincenti. E quindi Manovich non solo nega che la generazione di artefatti culturali con il machine learning sia più intelligente o più autonoma di altri metodi precedenti. ma afferma amzi che questo approccio è più restrittivo rispetto agli altri, perché un essere umano è chiamato a prendere decisioni in diversi momenti del processo. Infine Manovich individua l’essenza del comportamento culturale umano nella definizione di stili, ovvero di sistemi di regole di vincoli e di possibilità in campo artistico, la cui coerenza è fortemente vincolante le culture tradizionali, tant’è vero che gli stili sono usati come sistemi di datazione. Per questa ragione Manovich individua la necessità di insegnare ai dispositivi digitali a produrre qualcosa che gli umani non sanno fare, per esempio muoversi tra diversi sistemi ed estetiche all’interno di una singola opera o da un lavoro ad un’altro in una stessa serie”.