Spiega Manovich:
Oggi è possibile utilizzare un singolo computer per catturare, comparare quantificare e visualizzare migliaia di differenze tra decine di milioni di oggetti. Non abbiamo più scuse per focalizzarci unicamente su ciò che gli artefatti o i comportamenti culturali hanno in comune (come membri delle proposte categorie culturali o periodi culturali) (…) Abbiamo istituito il nostro Cultural Analytics Lab nel 2007 e abbiamo passato i dieci anni successivi ad assemblare, analizzare e visualizzare un vasto numero di insiemi di dati di artefatti corrispondenti a molti generi di media visuali, dalle pagine dei libri manga ai dipinti modernisti, dai film di avanguardia alle immagini condivise su Instagram, Twitter e Flickr. Sulla base di ciò che ho appreso, gli ideali dell’Analitica Culturale (…) sono facili da affermare ma complessi da eseguire in pratica. (…) Possiamo, dunque, imparare a pensare ai processi culturali senza bisogni di organizzarli in categorie? Come possiamo dissolvere gli schemi comuni che saranno rivelati delle analisi basate sull’IA al fine di concentrarci sulle differenze? Come possiamo rifiutare l’idea stessa del riassunto, impartitaci da centinaia di anni di scienze statistiche? Come possiamo allontanarci dalla presunzione dell’umanistica (che finora è stata custode dell’atto di pensare e scrivere sulla cultura) rispetto al suo ruolo di scoprire e interpretare dei tipi culturali generici, quali “modernismo”, “strutture narrative”, “immagini della classe operaia”, “selfie” o “fotografia amatoriale”? Come imparare, al contrario, a guardare alle culture più in dettaglio, senza cercare di identificare immediatamente i tipi, le strutture e i modelli? In primo luogo, abbiamo bisogno di campioni di dati sufficientemente ampi. Potremmo estrarre, così, numeri significativi per cogliere le caratteristiche degli artefatti, la loro ricezione, il loro uso da parte dell’audience e la loro circolazione (occorre inoltre pensare maggiormente a come rappresentare i processi culturali, le dinamiche e le interazioni, specialmente visto che oggi usiamo media culturali digitali interattivi in opposizione agli statici artefatti storici). Una volta raccolti questi insiemi di dati, potremo esplorarli tramite una varietà di metodi di machine learning non supervisionati come la visualizzazione dei dati multi-dimensionali, i raggruppamenti e altri ancora (…) I metodi di machine learning non supervisionato ci permettono di scoprire nuove categorie senza che queste abbiano obbligatoriamente dei nomi precisi, permettendoci così di cogliere delle connessioni di cui non eravamo precedentemente al corrente. Perciò, invece di ridurre i dati culturali in categorie familiari, il machine learning non supervisionato mostra proprio le limitazioni di queste categorie e ci suggerisce nuovi modi di guardare alla cultura. (L. Manovich, “L’ estetica dell’intelligenza artificiale. Modelli digitali e analitica culturale”)