Il modello russo

Bertola e Quintarelli spiegano:

la Russia (…) ha (…) cercato di promuovere alternative nazionali, di stabilire sistemi di sorveglianza e blocco dei contenuti e di assicurarsi l’indipendenza tecnica dalle risorse globali della rete. (…). La Russia ha messo in servizio un proprio insieme di server DNS, gestiti dal governo e collocati sul territorio russo, che tutti i fornitori di accesso sono obbligati a utilizzare, rendendosi teoricamente in grado di emanciparsi dalle decisioni globali di ICANN. (…) Il sistema di controllo russo si basa innanzi tutto su una stretta regolamentazione dell’industria. Gli Internet provider e i nodi di interconnessione devono essere autorizzati dal governo e devono rispettare una serie di prescrizioni, tra cui quella di usare i server DNS nazionali; se qualche operatore non si attiene a queste regole, gli altri sono tenuti a disconnetterlo dalla rete. I provider sono inoltre obbligati a conservare il contenuto di tutte le comunicazioni per sei mesi, e una traccia degli interlocutori e del momento delle comunicazioni (i cosiddetti metadati) per tre anni, dando accesso al servizio di sicurezza FSB in caso di richiesta. Tutti i dati degli utenti russi devono necessariamente essere ospitati su server fisicamente collocati all’interno del paese. Inoltre, i provider devono implementare liste di blocco di siti e servizi internazionali vietati, sia manipolando il DNS che filtrando gli indirizzi IP. Si tratta, a ben vedere, di norme non eccessivamente diverse da quelle in vigore in molti paesi europei, anche se comunque concepite in forme più penetranti e onerose per i cittadini e per gli operatori: per esempio, (…) la conservazione dei dati di traffico riguarda (…) [sia] i metadati (…) [sia] i contenuti. Quello che è molto diverso è però il contesto politico e sociale in cui tutto questo avviene, e la larga mano con cui le norme vengono applicate. (V. Bertola – S. Quintarelli, “Internet fatta a pezzi. Sovranità digitale, nazionalismi e big tech”)