Brevettare il futuro

Delfanti afferma che

esistono oggetti di studio (…) che servono letteralmente a descrivere il futuro della tecnologia: i brevetti, tramite i quali si rivendica la paternità di invenzioni che potrebbero essere sviluppate un domani. Cosa ancora più importante, l’esistenza di un brevetto implica che un’azienda ha investito tempo e denaro per dare corpo a un’idea: è un investimento in un futuro desiderato. Ecco perché questi documenti offrono un ricco materiale per l’analisi, compresa una dettagliata descrizione del progetto, dei bozzetti e i riferimenti alle tecnologie coinvolte. Oltretutto, sono documenti pubblici: i detentori dei brevetti sono tenuti a rendere accessibili le informazioni in merito alla tecnologia, poiché l’invenzione in oggetto dev’essere descritta minuziosamente per dimostrare che si tratta di un’idea nuova, originale e utile. (…) Un avvertimento: servirsi dei brevetti per farsi un’idea del futuro della tecnologia pone anche qualche problema. Il primo è che spesso questi documenti sono in qualche misura fuorvianti o illusori, dunque non vanno presi alla lettera. Può essere un fatto accidentale, ma anche intenzionale. Da un lato, le tecnologie che vengono descritte potrebbero rivelarsi impraticabili o non desiderabili, e magari richiedere decenni per concretizzarsi, oppure non farlo mai. Dall’altro, i brevetti a volte descrivono tecnologie che l’azienda non ha alcuna intenzione di implementare: sarebbero cioè strumenti che possono essere usati in tribunale per tenere a bada la concorrenza con la minaccia di azioni legali se solo si azzardassero a sviluppare una tecnologia affine (…) Nei brevetti non sono contemplate le persone che dovranno interagire con le macchine: l’«operatore umano», o «utilizzatore» – come viene definito –, è appena abbozzato come una silhouette senza volto. Questo contribuisce a restituire l’immagine falsamente neutra della forza lavoro: per esempio, non tiene conto del genere o dell’appartenenza etnica. Come altri processi della modernità occidentale, quello dell’innovazione tecnologica immagina un futuro artificialmente sterile che non considera – o se lo fa punta persino a cancellare – i soggetti del presente, nel loro essere imperfette creature in carne e ossa. (…) Nel futuro desiderato da Amazon gli umani sono presenti nel magazzino, ma il loro rapporto con la tecnologia è cambiato. Le macchine monitorano e analizzano le attività e le competenze dei dipendenti, trasformandole in dati che possono essere usati per ottimizzare non solo il lavoro umano, ma anche i processi macchinici: la manodopera addestra i robot. I dipendenti, inoltre, sono sempre più interscambiabili e il loro intervento si limita a compensare le carenze dei robot: per esempio, agiscono e percepiscono al posto dei sistemi software che organizzano il lavoro del magazzino, non viceversa. (A. Delfanti, “Il magazzino. Lavoro e macchine ad Amazon”)