Approccio retorico e mitizzante all’automazione, che preconizza l’inoccupazione umana.
In realtà, come dimostrano numerosi studi, tra cui quelli di Casilli, Aloisi e De Stefano, l’introduzione delle procedure, dei processi e dei dispositivi digitali nel comando del lavoro, ne produce una trasformazione che riduce dignità, diritti, retribuzioni e benessere, incrementando frammentazione, precarizzazione, isolamento e alienazione.
Per altro, secondo gli stessi autori:
(..) i lavori consistono nello «svolgere un ventaglio di compiti diversi», non tutti a rischio di sostituibilità robotica. Un’ampia fetta di attività è ancora difficile da meccanizzare, poiché (…) richiedono una miscela di abilità di dominio umano, tra cui astrazione, estro, improvvisazione, pensiero critico, giudizio analitico, intelligenza relazionale o sociale, ma anche abilità percettive, doti di manipolazione e destrezza fisica. (…) [Inoltre] un lavoro ad alto rischio di automazione in una certa area potrebbe essere “al sicuro” in una zona diversa. (…)
Esistono infine conoscenze “tacite”, vuoi personali o procedurali, sviluppate con la pratica e sedimentate nel nostro subconscio. Ed è estremamente difficile articolare queste capacità umane in protocolli standard: è il limite umano all’automazione. (…) Tantissime attività, dal quotidiano al sublime, non possono essere computerizzate perché non saremmo in grado di decodificarne le regole per trasferirle a una macchina intelligente.