Aloisi e De Stefano osservano che:
Una delle sfide chiave, forse la più importante, per la ricerca è la mancanza di una definizione comune, o quantomeno universalmente accettata. L’ecosistema delle piattaforme è molto vario, include sistemi di pagamento (Paypal o Revolut), canali di comunicazione social (Facebook e TikTok), fornitori di intrattenimento (Spotify o Netflix) o informazione (Google News e Reddit), e soprattutto servizi legati alla mobilità e all’accoglienza (da Car2Go ad AirBnB). Nei modelli in cui prevale la dimensione del noleggio o dell’acquisto, le prestazioni a carattere personale connesse allo scambio sono accessorie rispetto all’attività principale.
[Pertanto, avendo come obiettivo di analisi le] attività professionali ed “energie da lavoro”[va usata la formulazione]«lavoro tramite piattaforma» (…) valorizzando il canale attraverso cui le stesse sono scambiate, organizzate e retribuite. Allo stesso tempo, bisogna riconoscere che l’etichetta proposta copre vari tipi di attività economiche che hanno basi normative e implicazioni sociali molto diverse (…).
Per questo, riferirsi al lavoro intermediato da piattaforma come a un fenomeno monolitico sarebbe inaccurato, forse anche ingannevole.
[Anche se]si potrebbe prendere a prestito la formula usata dalla Commissione europea per identificare le piattaforme: «modelli imprenditoriali in cui le attività sono facilitate da piattaforme collaborative che creano un mercato aperto per l’uso temporaneo di beni o servizi spesso forniti da privati», [conviene circorscrivere il campo] mutuando lo schema usato da Eurofound (…) [] che identifica con platform work uno dei nove nuovi “formati” di lavoro non-standard emersi in Europa a partire dai primi anni del nuovo millennio: «una forma di lavoro che usa una piattaforma digitale per consentire a organizzazioni o individui (lavoratori) di entrare in contatto con altre organizzazioni o individui (clienti) al fine di risolvere specifici problemi o offrire particolari servizi in cambio di un pagamento».
Mettendo a fuoco tre specifiche tipologie di lavoro tramite piattaforma (attività locali allocate e organizzate dalle piattaforme, attività locali selezionate dai lavoratori, attività da remoto, in genere di natura creativa, assegnate tramite contest) lo studio [Eurofound (2018), Employment and working conditions of selected types of platform work, Lussemburgo: Publications Office of the European Union] analizza la complessità dei tanti profili prendendo in considerazione la composizione della forza lavoro, il contesto regolatorio, il grado di autonomia e l’intensità del controllo, l’accesso alle tutele sociali, le questioni legate alle competenze, alla formazione e alle prospettive di carriera, oltre che i proventi e i relativi profili fiscali e previdenziali.
Ne consegue che, da un punto di vista lavoristico, le piattaforme digitali più problematiche e meritevoli di attenzioni sono quelle che “scambiano” relazioni temporanee e checoordinano tale scambio tra il lavoratore e il cliente, in cui le attività sono distribuite tramite chiamate aperte oppure tramite assegnazione di mansioni, sia online che offline. (…) Si è concordi nel classificare il lavoro tramite piattaforma in due modalità principali, crowdwork e lavoro a chiamata tramite app(…).
Sono entrambi fenomeni di mobilizzazione di una forza lavoro temporanea e dispersa: il primo si fonda principalmente su un’offerta rivolta a un’ampia platea (una “folla”, crowd) potenzialmente connessa da ogni parte del mondo, il secondo si avvale di un gruppo di prestatori più stabile e definito, e soprattutto disponibile in un raggio ravvicinato.
Differiscono per il luogo di adempimento della prestazione: interazione remota a cui si accompagna una spinta all’esternalizzazione delle attività su scala globale nel primo caso, contatto concreto con il cliente nel secondo, su scala locale.
Nick Srnicek è esplicitamente critico nei confronti dell’idea del lavoro gratuito:
Per i teorici critici del web, (..) i modelli di business [sono] basati sullo sfruttamento del “lavoro gratuito”. (…) gli utenti sono lavoratori non pagati che producono beni (dati e contenuti) che sono loro tolti e venduti dalle società agli inserzionisti e altri soggetti interessati. Questa versione però presenta diversi problemi. Un primo nodo relativo al discorso sul lavoro gratuito è che spesso scivola verso grandi dichiarazioni metafisiche. Ogni interazione sociale diventa lavoro gratuito per il capitalismo, e iniziamo a preoccuparci che non ci sia via di uscita da esso. Il lavoro diventa inestricabile dal non lavoro e le categorie esatte diventano sfumate, secondarie. (…) Non tutte – e neanche la maggior parte – delle nostre interazioni vengono cooptate in un sistema di generazione di profitto. In realtà una della ragioni per le quali le aziende competono nel costruire piattaforme è che la maggioranza delle nostre interazioni sociali non entrano in un processo di valorizzazione. Se tutte le nostre azioni fossero già state acquisite nell’ambito di una valorizzazione capitalistica, non si capisce perché si dovrebbero costruire apparati estrattivi come sono le piattaforme. Più in generale, il “lavoro gratuito” è solo una porzione della moltitudine di fonti di dati sui quali fa affidamento un’azienda come Google: transazioni economiche, informazioni raccolte da sensori con l’Internet delle cose, dati aziendali e governativi (come rapporti di credito e finanziari), e sorveglianza privata e pubblica (come nel caso delle auto usate per costruire Google Maps). (…) Nel contesto marxista, lavoro è un termine che ha un significato molto preciso: è un’attività che genera un plusvalore in un contesto di mercati del lavoro, e un processo di produzione orientato verso lo scambio. Se l’interazione sociale sia o no parte della produzione capitalista non è solo una noiosa disquisizione accademica sulle definizioni. L’importanza del fatto che questa interazione costituisca o no lavoro gratuito ha delle conseguenze. Se è capitalista, allora sarà soggetta alle stesse tensioni da parte di tutti i consueti imperativi capitalisti: bisognerà razionalizzare i processi produttivi, abbassare i costi, aumentare la produttività, e via discorrendo. Se non lo è, allora quelle richieste non saranno fatte. Nell’esaminare le attività degli utenti online, è difficile sostenere si tratti di lavoro in senso stretto. Oltre l’esitazione intuitiva a pensare ai messaggi mandati agli amici come lavoro, nessuna idea di ore di lavoro socialmente necessarie – lo standard implicito sul quale si settano i processi produttivi – viene soddisfatta. Questo vuol dire che non ci sono pressioni competitive che spingano gli utenti a fare di più, anche se ci sono pressioni a che facciano di più online. Più in generale, se le nostre interazioni online sono lavoro gratuito, allora queste società devono rappresentare un vantaggio significativo per il capitalismo in generale e aver aperto uno scenario di sfruttamento del lavoro completamente nuovo. D’altro canto, se queste non costituiscono lavoro gratuito, allora queste società sono parassitarie rispetto ad altre aziende che invece producono valore, e il capitalismo globale di conseguenza gode di pessima salute. Uno sguardo veloce all’economia stagnante mondiale suggerisce che il secondo scenario sia più probabile. Invece di sfruttare del lavoro gratuito, la posizione qui presa è che le piattaforme di pubblicità si approprino dei dati come materia prima. Le attività degli utenti e delle istituzioni, se registrate e trasformate in dati, diventano sostanza che può essere raffinata e usata in varie maniere dalle piattaforme. Con le piattaforme di pubblicità, in particolare, i ricavi sono generati attraverso l’estrazione dei dati dalle attività online degli utenti, dall’analisi di quei dati, e dalle aste di spazi pubblicitari agli inserzionisti. Questo comprende l’ottenimento di due processi. Prima di tutto, le piattaforme di pubblicità hanno bisogno di osservare e registrare le attività online. Maggiore è il numero di utenti che interagiscono con un sito, più informazioni possono essere raccolte e usate. Mentre gli utenti vagano per internet vengono monitorati con cookies e altri strumenti, e questi dati sono ancora più approfonditi e hanno più valore per gli inserzionisti. Nell’economia digitale avviene una confluenza tra sorveglianza e fini di lucro, che porta alcuni a parlare in termini di “capitalismo del controllo”. Cruciale ai fini dei profitti, a ogni modo, non è la sola raccolta dei dati, ma anche la loro analisi. Gli inserzionisti sono meno interessati ai dati non organizzati e più ai dati che danno loro spunti utili o che li accoppiano a potenziali consumatori. Si tratta di dati sui quali si è lavorato. Si è applicato loro un qualche processo, o attraverso il lavoro qualificato di un data scientist o con la manodopera automatizzata di un algoritmo di tipo machine learning. Quello che è venduto agli inserzionisti dunque non sono i dati in quanto tali (gli inserzionisti non ricevono dati personalizzati) ma piuttosto la promessa che il software di Google farà abilmente incontrare un inserzionista con gli utenti più adatti al momento del bisogno.
Opaque algorithms are creating an invisible cage for platform workers – da mronline.org