Afferma Wark:
[Il] settore tecnologico (della) cosiddetta cultura delle start-up (…) [impiega] hacker nel senso più ristretto (…) del termine, persone che codificano. (Anche qui, molto potrebbe rivelarsi lavoro nel senso di ripetizione e compilazione di moduli generati da software già creati e progettati e effettivamente posseduti da qualcun altro.) La promessa, però, è che l’hacker può diventare proprietario. (…) è l’esca per entrare a far parte della classe dirigente. I rischi dell’impresa vengono spostati in modo sproporzionato sull’hacker mentre i premi tornano in modo sproporzionato a quella frazione della classe vettoriale nota come capitale di rischio. Ad alcune parti della classe hacker viene offerta una possibile fuga nella classe vettoriale al prezzo di una maggiore precarietà e che raramente si verifica. La maggior parte si trova vincolata da routine che li trasformano maggiormente in lavoro salariato. [Si configura una] cultura vettoriale [che] incoraggia tutti a immaginare di essere imprenditori del sé, giocando la posta dei propri spiriti animali nel grande casinò della vita. (…) Ciò che significa essere un capo è ora modellato sulla classe vettoriale piuttosto che sulla classe capitalista. Si tratta di accumulare relazioni asimmetriche di informazioni. Si tratta di comandare e monopolizzare l’attenzione. Si tratta di monetizzare le apparenze. La cosa a cui aspirare è possedere un marchio, a partire dal sé marchiato e da lì espandersi. (McKenzie Wark,”Capital Is Dead: Is This Something Worse?”- traduzione in proprio)