Descrivere le tecnologie digitali come prodotti sociali e svelarne le ambiguità in modo emancipato e con scopo emancipante è dovere politico-culturale di una critica radicale della "platform society", capace di decostruire mediante cortocircuiti concettuali l'inganno tecno-liberista della "società della conoscenza sorvegliata".
Gli specialisti di computer sovietici dovettero camminare su una linea sottile tra due pericoli mortali: rimanere indietro rispetto all’Occidente nell’informatica e seguire troppo a vicino le tendenze occidentali. Per proteggersi da potenziali complicazioni deologiche, ricorsero alla strategia discorsiva della “deideologizzazione” (…) Enfatizzavano le ristrette funzioni tecniche dell’informatica e della teoria dell’informazione, ignorando qualsiasi potenziale innovazione concettuale. Questa strategia limitava fortemente il campo delle applicazioni informatiche ed eliminava le prospettive della modellazione biologica e sociologica. In Unione Sovietica, il computer digitale era visto come un gigantesco calcolatore ed era stato spogliato di tutte le metafore cibernetiche. Paradossalmente, è stato visto sia come uno strumento indispensabile per progettare e controllare le armi sia come un simbolo culturale della tecnologia liberata dall’ideologia. La controversia ideologica sulle analogie cibernetiche uomo-macchina e i tentativi di “deideologizzare” i computer sovietici riflettevano un feroce scontro discorsivo tra neolingua [Gerovitch usa questo termine per definire linguaggio accessibile alla burocrazia: il linguaggio ideologico carico di valori del discorso ufficiale sovietico. Questa lingua costituiva un mezzo linguistico ideologico pervasivo in cui vivevano e lavoravano gli scienziati sovietici – NdR] e cyberlingua. (Slava Gerovitch – “From Newspeak to Cyberspeak: A History of Soviet Cybernetics” – traduzione in proprio)