Le basi giuridiche per la commercializzazione e la captazione della conoscenza collettiva

Bertola e Quintarelli ricostruiscono:

Nel 1996, il Communications Decency Act americano (…) incluse un articolo di ventisei parole che portava il numero 230. La section 230 introdusse in Internet un principio fondamentale, già presente nei servizi postali e di telefonia: l’operatore non è responsabile per eventuali illiceità del contenuto trasmesso. (…) Analogamente, con la section 230, né il fornitore di un servizio Internet né l’utente dello stesso sono responsabili per i contenuti inseriti in rete da un utente o fornitore terzo. In pratica, questo vuol dire che se un utente usa la propria connessione a Internet per pubblicare un contenuto illegale, il provider che trasporta fisicamente quel contenuto non ne è responsabile, né lo è l’utente che lo visualizza. (…) I fornitori di servizi Internet hanno comunque il diritto e l’obbligo di intervenire per bloccare o rimuovere prontamente contenuti illegali se vengono a sapere che si sta svolgendo qualcosa di illecito; l’esenzione dalle responsabilità di cui gode il fornitore non implica quindi una generale libertà di far circolare materiale illecito. (…) questo principio normativo risultò fondamentale per consentire la nascita delle grandi piattaforme di distribuzione dei contenuti generati dagli utenti; siti come YouTube non avrebbero altrimenti potuto esistere, perché il rischio di essere ritenuti legalmente responsabili per i contenuti inviati dagli utenti avrebbe comportato la necessità di esaminare tutti i caricamenti uno per uno in anticipo, un’attività palesemente insostenibile. Lo stesso modello fu poi copiato dall’Unione Europea con la Direttiva E-commerce del 2000. Anch’essa stabilì la medesima esenzione di responsabilità per i fornitori di servizi, dividendoli in categorie a seconda che si occupassero di puro trasporto dei dati (mere conduit), di ospitalità dei contenuti (hosting) o di velocizzazione della loro distribuzione (caching). La direttiva europea aggiunse però un altro criterio fondamentale, il cosiddetto principio del paese di origine. Questo principio, mirato alla realizzazione di un mercato unico europeo dei beni digitali, stabilisce che un servizio o un contenuto che risulta legale in un paese dell’Unione Europea possa essere distribuito in tutti gli altri paesi, rimanendo comunque soggetto alla sola giurisdizione della nazione in cui è ospitato. (…) Questi due principi – l’esenzione di responsabilità e la limitazione giurisdizionale al paese d’origine – sono stati fondamentali per estendere la natura globale di Internet alle attività commerciali. Sarebbe infatti impossibile per un fornitore di servizi tenere conto immediatamente delle legislazioni di duecento nazioni sparse per il globo, magari dovendo adeguare automaticamente i propri servizi alla nazione di chi utilizza quei servizi; e senza l’esenzione dalle responsabilità, il rischio che un utente di un paese molto lontano, con cultura, valori e norme completamente diverse dalle nostre, utilizzi la piattaforma per attività illegali che il provider nemmeno potrebbe riconoscere sarebbe troppo alto da accettare. (…) l’impostazione di queste normative fu prettamente economica, ed ebbe quindi la conseguenza di focalizzare ogni sforzo nella creazione di una Internet globale per il commercio e per le merci, senza che questa fosse accompagnata da una Internet globale per i valori, per la difesa dei consumatori o per i diritti umani. Insomma, per le persone. Questa seconda parte, indubbiamente più difficile, non fu mai affrontata e rimase deficitaria; la scelta di costruire un’economia digitale di mercato globale, ma senza avere alcun modo di gestirla tramite meccanismi che non fossero quelli del libero mercato, sta alla base dei problemi che sono emersi nell’ultimo decennio.(V. Bertola – S. Quintarelli, “Internet fatta a pezzi. Sovranità digitale, nazionalismi e big tech”)