“(…) le invenzioni sono prevalentemente il frutto di investimenti a lungo termine che si accumulano uno sull’altro nel corso degli anni. Prendiamo un esempio ovvio: l’innovazione nei personal computer, che rimpiazzarono i grossi mainframe, arrivò dopo decenni di innovazione nei semiconduttori, nella capacità di memoria e nella scatola stessa (riducendo i mainframe a dimensioni molto più piccole). Società come IBM furono la chiave per l’introduzione dei personal computer alla fine degli anni Settanta e negli anni Ottanta. Ma ci sarebbe stata scarsa innovazione senza il contributo a quel lungo processo di altri attori, come l’investimento del governo americano nella ricerca dei semiconduttori e le sue ingenti commesse negli anni Cinquanta e Sessanta. O, più tardi, gli investimenti del governo americano in internet, o quello fatto da società come Xerox Parc – essa stessa beneficiaria di grandi co-finanziamenti pubblici – nello sviluppo dell’interfaccia grafica utente, che Steve Jobs poi usò nel primo Apple Macintosh, Lisa. (…) contrariamente all’immaginario dominante degli imprenditori senza paura, pronti ad assumere rischi, le imprese spesso non vogliono affatto assumere rischi. È questo il caso specialmente in settori dove sono necessari grandi capitali e i rischi tecnologici e di mercato sono alti – il settore farmaceutico, per esempio, e le primissime fasi di settori come internet, le biotecnologie, le nanotecnologie. A questo punto il settore pubblico, può entrare, e in effetti entra, dove la finanza privata ha paura di inoltrarsi, per fornire vitali finanziamenti a lungo termine. (…) Tali processi sono evidenti nelle tecnologie che sostengono alcuni prodotti onnipresenti di oggi: l’iPhone, per esempio, dipende dalla tecnologia dello smartphone che è stata finanziata con fondi pubblici, mentre sia internet che SIRI sono stati finanziati dalla Defense Advanced Research Projects Agency (DARPA), del Dipartimento alla difesa statunitense; il GPS dalla Marina Americana; lo schermo touchscreen dalla CIA. Nel settore farmaceutico la ricerca ha dimostrato che due terzi delle medicine più innovative (nuove entità molecolari con valutazione prioritaria) devono le loro ricerche ai finanziamenti dell’US National Institute of Health. Mentre alcune delle più grandi scoperte nel campo dell’energia – dal nucleare al solare al fracking – sono state finanziate dal Dipartimento per l’energia, incluse le recenti scoperte sull’immagazzinamento di batterie da parte di ARPA-E, l’organizzazione sorella di DARPA. Sia Bill Gates, amministratore delegato di Microsoft5, che Eric Schmidt, presidente di Alphabet (la casa madre di Google), hanno scritto recentemente sugli immensi benefici che le loro società hanno ricevuto dagli investimenti pubblici: come internet e il codice html del world wide web scritto al CERN, un laboratorio pubblico europeo, l’algoritmo stesso di Google fu finanziato da una sovvenzione della National Service Foundation.” (Mariana Mazzucato, Il valore di tutto. Chi lo produce e chi lo sottrae nell’economia globale, Laterza – 2018)
Per una visione ancora più generale, ecco il contributo di Graeber e Wengrow:
non vogliamo negare che le tecnologie abbiano un ruolo cruciale nel plasmare la società. Ovviamente sono fondamentali, perché ciascuna nuova invenzione offre possibilità sociali che prima non esistevano. Allo stesso tempo, è molto facile ingigantire l’importanza che rivestono nella direzione generale del cambiamento sociale. Per fare un esempio lampante, il fatto che gli abitanti di Teotihuacán o i tlaxcaltechi usassero utensili di pietra per costruire le loro città, mentre le popolazioni di Mohenjo-daro e di Cnosso preferivano gli strumenti di metallo, sembra aver fatto pochissima differenza per l’organizzazione interna e le dimensioni di quelle città. Le prove non confermano neppure l’idea che le grandi innovazioni si verifichino sempre in improvvisi scatti rivoluzionari, trasformando ogni cosa da quel momento in poi (questo, come ricorderete, è uno dei punti principali emersi dai due capitoli che abbiamo dedicato alle origini dell’agricoltura).
(…) spesso gli autori contemporanei sembrano avere qualche difficoltà a resistere alla tentazione di credere che debba essersi verificata un’analoga drastica rottura con il passato. In realtà, come abbiamo visto, non ebbe luogo nulla del genere. Invece di un genio maschile impegnato a realizzare la propria visione solitaria, nelle società neolitiche l’innovazione si basava su un corpus collettivo di conoscenze accumulate nei secoli, perlopiù dalle donne, in un’infinita serie di scoperte apparentemente umili ma molto significative. Molte di quelle scoperte neolitiche ebbero l’effetto cumulativo di rimodellare la vita di tutti i giorni con la stessa intensità del telaio automatico o della lampadina.
Ogni volta che ci sediamo a fare colazione, probabilmente sfruttiamo una decina di queste invenzioni preistoriche. Chi fu il primo a capire che si poteva far gonfiare il pane con l’aggiunta dei microorganismi che chiamiamo lieviti? Non ne abbiamo idea, ma possiamo essere quasi sicuri che fosse una donna e che molto probabilmente non verrebbe considerata «bianca» se oggi provasse a immigrare in un Paese europeo; e indubbiamente sappiamo che la sua scoperta continua ad arricchire la vita di miliardi di persone. Sappiamo anche che simili scoperte si basavano, ancora una volta, su secoli di conoscenze accumulate e di sperimentazione – si ricordi come i principi fondamentali dell’agricoltura fossero noti molto prima che qualcuno li applicasse in modo sistematico – e che i risultati di questi esperimenti venivano spesso custoditi e tramandati attraverso rituali, giochi e forme di attività ludica (o ancora di più, forse, attraverso la combinazione di tutte e tre le cose).
Qui i «giardini di Adone» sono un simbolo idoneo. All’inizio le conoscenze sulle proprietà nutritive e sui cicli di crescita di quelle che in seguito sarebbero diventate colture di base – frumento, riso, mais –, in grado di sfamare vaste popolazioni, furono conservate proprio attraverso un’agricoltura «per gioco» di questo tipo. Né questo schema di scoperta fu limitato alle colture. Le ceramiche furono inventate, molto prima del Neolitico, per creare statuine, modelli in miniatura di animali e altri soggetti, e solo in seguito recipienti per la cottura e la conservazione. L’estrazione è attestata per la prima volta come metodo di reperimento dei minerali da usare a mo’ di pigmenti, con l’avvento molto più tardo dell’estrazione dei metalli a uso industriale. Le società mesoamericane non usarono mai il trasporto su ruote, ma sappiamo che avevano dimestichezza con raggi, ruote e assi perché costruivano versioni giocattolo di questi oggetti per i bambini. Gli scienziati greci sono famosi per aver intuito il principio della locomotiva a vapore, ma lo sfruttarono solo per fabbricare porte che parevano aprirsi da sole o per analoghe illusioni teatrali. Gli scienziati cinesi sono altrettanto famosi perché utilizzarono per la prima volta la polvere da sparo per i fuochi d’artificio.
Per buona parte della storia, dunque, la zona del gioco rituale costituì sia un laboratorio sia, per ogni data società, un bagaglio di conoscenze e di tecniche da applicare o meno ai problemi pratici. Si ricordi, per esempio, i «piccoli uomini vecchi» degli osage e il modo in cui unirono la ricerca e la speculazione sui principi della natura alla gestione e alla riforma periodica dell’ordinamento costituzionale, considerandole in sostanza lo stesso progetto e tenendo meticolosi registri (orali) delle deliberazioni. La città neolitica di Çatalhöyük e i megasiti di Tripillia ospitavano forse analoghi collegi di «piccole donne vecchie»? Non possiamo saperlo per certo, ma ci sembra molto plausibile, dati i ritmi condivisi dell’innovazione sociale e tecnica che osserviamo in ciascun caso e l’attenzione ai temi femminili nell’arte e nei rituali. Se stiamo cercando di individuare domande più interessanti da fare alla storia, la prima potrebbe essere: esiste una correlazione positiva tra ciò che di solito si chiama «parità di genere» (forse sarebbe più indicato dire «libertà delle donne») e il grado di innovazione di una data società?
Scegliere di descrivere la storia al contrario, come una serie di brusche rivoluzioni tecnologiche, seguite ciascuna da lunghi periodi in cui siamo stati prigionieri delle nostre creazioni, ha le sue conseguenze. È un modo per rappresentare la nostra specie come molto meno premurosa, creativa e libera di quanto abbiamo dimostrato di essere in realtà. Equivale a non raccontare la storia come una serie ininterrotta di nuove idee e innovazioni, siano esse tecniche o di altro tipo, un processo durante il quale diverse comunità decisero collettivamente quali tecnologie fossero adatte agli scopi quotidiani e quali andassero limitate all’ambito della sperimentazione o del gioco rituale. Ciò che vale per la creatività tecnologica vale, naturalmente, ancora di più per la creatività sociale. Uno degli schemi più sorprendenti che abbiamo scoperto mentre effettuavamo le ricerche per questo libro – anzi, uno degli schemi che secondo noi assomigliano di più a un vero progresso – è il modo in cui di volta in volta, nella storia dell’umanità, quella zona di gioco rituale ha funto anche da sede di sperimentazione sociale, se non addirittura, per certi versi, da enciclopedia di possibilità sociali.
[…] orientate al profitto e le loro implicazioni operative e socio-culturali quali agenti di benefica innovazione, con espressione come “sharing economy” e simili, che nascondono il meccanismo del […]
"Mi piace""Mi piace"
[…] riconsiderazione del concetto di innovazione; […]
"Mi piace""Mi piace"