Orphan drugs

Sono i medicinali destinati a un numero limitato di pazienti, in particolare quelli affetti da malattie rare, che suscitano perciò scarso interesse sul mercato della salute e della sanità.

Più in generale, Florio ci fa riflettere sul paradosso determinato dall’incremento in campo medico della conoscenza specialistica e mirata:

[la] diminuzione del costo del sequenziamento dei geni (…) [rende] sempre più possibile incrociare questi dati con informazioni individuali su storia medica, istruzione, occupazione, e molto altro di ciascun paziente (…) [e quindi] l’identificazione di un grande numero di (…) patologie (…) per le quali il mercato non è ritenuto redditizio dalle imprese (se non sussidiandole). Per il 90% di queste patologie non vi è una cura approvata dalla Food and Drug Administration (FDA). Secondo alcuni studi gli sforzi di R&D stanno crescendo nell’area orphan drugs e la quota che era solo del 6% nel 2000 potrebbe raggiungere il 21% nel 2022 (OECD, 2017). Tuttavia questo aumento della quota va messo in relazione alla minore produttività complessiva della ricerca.
         Si prevede che più conosceremo i nostri dati, quindi più andremo verso la medicina di precisione, più piccole saranno le opportunità di mercato proprio a causa del via via decrescente numero di pazienti per ciascuna patologia identificata. Questo è il paradosso: più conoscenza di noi stessi, maggiore frammentazione dei mercati, meno profitti attesi, meno incentivi alla ricerca? Il modello prevalente nell’industria per funzionare ha idealmente bisogno di grandi mercati, stabili nel tempo, in grado di garantire alti margini di guadagno. (…)

[Inoltre] il settore del farmaco e biomedico in generale [si colloca] fra le industrie a più alta intensità di R&S nell’economia contemporanea (…) Chi paga per questa costosa ricerca? Dato che il settore è essenzialmente formato da imprese controllate da investitori privati, che operano con obiettivi di profitto, i finanziatori ultimi di questo enorme sforzo di produzione di conoscenza sono i pazienti ed i contribuenti (…) attraverso il prezzo dei farmaci e di altri prodotti e servizi, o attraversi i premi connessi ai contratti di assicurazione sanitaria o di altre formule di partecipazione alla spesa (…) A quanto paghiamo come pazienti va sommato poi quanto paghiamo come contribuenti con le imposte che finanziano la spesa pubblica per sussidi a questa ricerca in varie forme (…)
Difficile quantificare il contributo pubblico diretto e indiretto alla ricerca biomedica tramite sussidi alle imprese, ma (…) si potrebbe arrivare al 30%-50% del totale (…). Forse il finanziamento pubblico è ancora maggiore se si considera il ruolo delle conoscenze donate dalla ricerca universitaria. Questi sussidi pubblici tuttavia non appaiono sufficienti a determinare un orientamento prioritario nel senso della salute pubblica della ricerca. (…)
         Una analisi svolta da Taghreed et al. (2019) [discute] i risultati del World Health Organization’s Global Observatory on Health Research and Development, istituito nel 2017. L’Observatory ha analizzato 86.000 innovazioni sviluppate dal 1995, che includono medicine, vaccini, e diagnostica. Fra questi prodotti innovativi, quelli analizzati e in uso erano 14.999, di cui ben 87% (13.004) riguardano malattie non contagiose, 9% (1319) le malattie infettive (1047) ed il resto riguarda condizioni connesse alla maternità, alle patologie neonatali, ed altre. Fra i prodotti per malattie quasi la metà riguarda il cancro. Meno dello 0,5% dei prodotti in uso riguardano la lista OMS delle malattie tropicali neglette e solo 0,4% riguardano patogeni che sono inseriti nella lista di quelli considerati prioritari da OMS. A conclusione di questa analisi sistematica i ricercatori scrivono che: Questi risultati ed altre recenti analisi dell’Osservatorio mostrano una scarsa conferma che le decisioni sui nuovi investimenti nella ricerca e sviluppo siano basate sull’evidenza e sulle priorità, o che riflettano i bisogni della sanità pubblica nei paesi a basso e medio reddito.

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