Kylie Jarrett riflette sulla vicenda del “capitale erotico” investito da prostitute su OnlyFans e critica l’uso del concetto di mercificazione per definire lo sfruttamento del sé su questa e su altre piattaforme che stimolano alla creazione retribuita di contenuti, tra cui immagini della propria incarnazione sessuale. Si tratta infatti di un processo differente, che coinvolge anche gli influencer: autosfruttamento attraverso la continua ottimizzazione adattiva di contenuti personali, che rientrano nel campo non della merce alienabile ma delle risorse di investimento su sé stessi, del capitale umano: micro e macro-celebrità, fondata su beni come personalità, espressioni estetiche del sé, relazioni interpersonali, aspetti della vita intima e così via. Nell’economia della piattaforma accrescere la propria reputazione, misurata con metriche astratte, generate dalla piattaforma stessa, serve a stimolare investimenti futuri. Acquisire capitale umano significa quindi accumulare attivamente le esperienze di vita, gli affetti, le attitudini, le relazioni o i comportamenti che possono essere valutati positivamente da una serie di potenziali investitori. I soggetti intraprendenti oggi investono su sé stessi affinché gli altri facciano successivamente altrettanto, eseguendo e verificando un sé curato, capace di riflettere le aspettative del pubblico. Questa autoproduzione ha l’obiettivo di proteggere gli investitori su quell’identità, che vanno dai follower ai partner commerciali fino agli algoritmi della piattaforma. La soggettività che è incorporata nei calcoli economici del capitale non viene però esaurita da quello scambio né diventa possesso esclusivo della piattaforma, del follower o del brand partner: è un bene non rivale.
Alla base di questo processo c’è la cultura della finanziarizzazione: il prezzo delle azioni si fonda su calcoli sul valore futuro, si sono diffusi i fondi pensione speculativi, il debito d’onore nell’istruzione ha come obiettivo guadagni – di nuovo – futuri, si è propagandato e stimolato il credito. Il continuo miglioramento del corpo, della personalità e dei beni materiali di un lavoratore, associati allo sviluppo del capitale umano, possono essere coerentemente intesi come investimenti speculativi sul valore futuro del bene della sua soggettività lavorativa, con particolare riferimento alla costruzione della reputazione e all’autoimprenditorialità.
La categoria concettuale della mercificazione, infatti, non funziona perché:
Anche se un post di un influencer su Instagram può essere astratto ed
espropriato per l’uso nell’economia di calcolo di quella piattaforma, da un
partner di marca o dalla loro agenzia di talenti, non è solo questo. Quello
scambio rimane un’interazione preziosa e significativa tra l’influencer e i suoi
seguaci, piena di valori d’uso e di significato non calcolabile anche se serve a
quell’altro scopo per il capitale. Ha simultaneamente sia valore di scambio sia
valore d’uso. Di conseguenza, lo scambio non raggiunge mai quel tipo di
fungibilità o di feticismo che lo rende una merce o, almeno, semplicemente
una merce. Conserva la propria connessione e radicamento nella propria utilità e nel proprio significato per coloro che sono coinvolti nello scambio e quindi continua a
risiedere nei corpi e nei registri affettivi di quegli esseri umani. Rimane, almeno
in parte, inalienabile. [L’influencer (così come la prostituta)] è piuttosto un capitalista umano: lavoratore che investe e sfrutta le proprie capacità all’interno dell’economia. Questa (…) è diventata [attualmente ] la forma soggettiva dominante perché i lavoratori cercano di sviluppare o apprezzare il valore del sé come forma di valuta nel mercato. Il tipo di soggettività che questo assume non presuppone la distinzione tra l’interno del mercato e l’esterno – tra le sfere della produzione e della riproduzionem tra lavoro e tempo libero (…). Piuttosto, questo soggetto concepisce queste sfere in modo olistico, considerando, attivando e sviluppando simultaneamente le dimensioni di entrambe le zone esistenziali nella spinta per una vita buona e significativa [che non separa valore d’uso e valore di scambio]. (…) Gli investimenti [attirati possono essere] (…) pagamenti diretti tramite abbonamenti, donazioni o mance, o quota di pubblico che gli inserzionisti o i partner commerciali riterranno desiderabile raggiungere. Su alcune piattaforme, garantire un gran numero di follower è essenziale per qualificarsi per le opzioni di monetizzazione che forniscono. Ciò significa che i creatori online fanno affidamento sull’investimento dei loro fan nei prodotti che offrono. La dipendenza dal traffico dell’audience o dal coinvolgimento (…) significa che sono costantemente sottoposti al potere di selezione e a valutazioni continue. (…) I creatori online devono anche lavorare sodo per garantire la corrispondenza della propria personalità online e delle sue rappresentazioni alle strutture visive, semantiche, temporali, legali e algoritmiche delle piattaforme. (…) poiché questi algoritmi sono in continua evoluzione, ciò richiede costantemente apprendimento, ritocco, miglioramento, test e rinnovamento della versione di sé che presentano e di come lo .presentano al (potenziale) pubblico. Il reddito che possono generare dal loro lavoro risiede tanto nella comprensione di questi codici e quindi nell’attirare l’attenzione degli algoritmi, quanto nel costruire relazioni con gli utenti o nel perfezionare la soggettività ideale. (…) I costi irrecuperabili di tempo, denaro o risorse per modellare le proprie capacità e soggettività sostenuti da questi lavoratori sono quindi una scommessa sui guadagni futuri che potrebbero ricevere dall’investimento di altri nel loro capitale umano. In questo modo la loro soggettività non viene mercificata ma trasformata in un bene; è in fase di assettizzazione. (…) Coloro che consumano le soggettività offerte su OnlyFans o Instagram sono semplicemente parti interessate a quella soggettività piuttosto che i suoi proprietari. (adattamento, traduzione in proprio e citazione da “Showing off your best assets: Rethinking commodification in the online creator economy”, di Kylie Jarett, Sociologia del lavoro, 163-2022)