Sia pure con stile davvero involuto e con qualche imprecisione formale di troppo, Viero affronta in modo critico il tema dell’esposizione dell’attività scolastica alla ricerca di visibilità:
Esistono (…) piattaforme informatiche su cui riversare le migliori performance, la fantasmagoriche “best practices”, a patto che tutto sia reso prima visibile, perché il senso è restituito solo dalla visibilità e dalla riproducibilità, non dal valore della cosa in sé, quale può essere l’apprendimento in quel presente. Molto spesso si assiste all’inversione, ossia all’escogitare una pratica didattica che trova giustificazione nel solo intento di lasciare traccia come sintomo di esistenza dell’insegnante e della classe; nuovo criterio di scelta di un’attività piuttosto che un’altra. Un ruolo performativo, in tutto questo, lo esercita la quotidiana invasione di circolari ministeriali e non che propongono la partecipazione a concorsi il cui risultato finale è un premio, una menzione e l’esposizione. Nella penuria di risorse della scuola, che oramai sembra abbisognare solo di finanziamenti e di strumenti tecnologici per funzionare (invece che dell’economica massima adorniana “gomma e matita sotto comune responsabilità”), questi premi sono presi come oro colato ma sono anche un cavallo di troia che modifica il modo di fare scuola, perché ogni suddetto concorso necessita della realizzazione di un “prodotto” per partecipare. Un certificato visibile che attesti dall’esterno. Tutto questo è spia di come il valore delle cose sia dato dall’esterno previa la visibilità che segna l’interdipendenza tra certificante e certificato, in un relazionismo che fa l’interesse dell’esterno, di chi detiene il potere, ossia del certificante. Perché gli insegnanti si adeguano e appaiono ma non si espongono. (D. Viero, “La scuola del macchinismo. Passaggi per un’altra antropologia”)