Ci risiamo. Gli scriba e i sacerdoti della tradizione sono tornati in scena con il loro consueto cavallo di battaglia: didattica a distanza come attentato alla libertà di insegnamento.
Chiarito per l’ennesima volta che la configurazione della platform society ha già realizzato in modo quasi indolore numerose forme di cittadinanza vincolata e – di conseguenza – di sussunzione dell’istruzione nel capitalismo di sorveglianza, non posso non sottolineare ancora una volta la debolezza di questa impostazione, anche se — come per altro già detto – voglio ascriverla all’intenzione emancipatoria e collettiva e non a quella individualistica e corporativa.
Da una parte, infatti, si guarda al dito e non alla Luna, dall’altra si assumono posizioni completamente subordinate all’agenda, alle proposte e al quadro concettuale e antropologico del pensiero tecno-liberista e per ciò stesso perdenti e retoriche.
In particolare, utilizzare l’espressione “didattica a distanza“, anche nei casi in cui non la si faccia precedere dall’articolo determinativo, indica profonda e sconsolante incapacità di svincolarsi dal lessico e dallo scadenziario delle istituzioni e del pensiero mainstream.
Insomma, le garanzie poste dalla Carta costituzionale a tutela dei percorsi di apprendimento sono in pericolo anche (se non soprattutto) per il fatto che – di fronte all’esigenza sanitaria di distanziare le pratiche didattiche ricorrendo alle infrastrutture elettroniche – non si è voluto o non si è stati capaci di comprendere la questione digitale nella sua globalità, non si sono analizzate le possibili alternative, non si è ragionato su impostazioni e metodologie divergenti e non si sono nemmeno esplorate le possibilità di utilizzo etico e democratico dei dispositivi.
Detto in altri e amari termini: si è messa in atto una colpevole rinuncia ad istruirsi, proprio quando c’era un urgente bisogno di intelligenza.