Luciano Gallino è illuminante e predittivo quando afferma che:
“l’informatica propone di continuo nuove possibilità per l’asservimento della persona, non meno che opzioni per affrancarla (“Informatica e qualità del lavoro“, Einaudi, 1983)
Poco prima, per altro, ha provato a delineare un futuro in cui “l’informatica” sia protensiva, vocata a sviluppare e prolungare le capacità umane:
(…) in un terzo futuro tra i tanti paralleli, l’informatica è stata immensamente sviluppata, ma non tanto – come negli altri futuri – per sostituire capacità umane, quanto per svilupparle e prolungarle. I preesistenti lavori di bassa qualità ergonomica e intellettuale sono stati eliminati, affidandoli alle macchine, ma grazie all’informatica si è evitato di crearne di nuovi. Elaboratori di ogni tipo e potenza sono diffusissimi, nei luoghi di lavoro e di abitazione, di ricreazione e di transito, di istruzione e di cura, ma l’interazione diretta tra l’utente e la macchina risulta relativamente limitata, salvo che in alcune professioni, come il progettista. Gran parte della produzione di beni e servizi impersonali è stata automatizzata; tuttavia la popolazione attiva non è mai stata altrettanto ampia, poiché l’informatica protensiva ha dischiuso una quantità di nuovi settori ad alta intensità di lavoro manuale e intellettuale. Molti lavoratori sono impegnati nel trovar modo di estendere tali settori, mentre altri continuano ad occuparsi dell’automazione dei lavori che una persona è meglio non faccia, perché pericolosi, nocivi o monotoni. Esistono anche aree della società e del territorio dove l’informatica pare assente, perché è stata utilizzata non al loro interno, ma per costituire attorno ad esse una rete flessibile ed invisibile di supporto e protezione informazionale, siano esse costituite da riserve naturali, comunità agricole, specchi d’acqua o centri storici: delicati sistemi viventi che l’informatica ha permesso per la prima volta, per mezzo degli elaboratori inferenziali della quinta generazione, di comprendere nei dettagli e di modellizzare per aiutarli a sopravvivere senza manipolarli. Le unità produttive e le organizzazioni in genere sono per lo piu alquanto piccole, relativamente autonome quando non autogestite, ma con l’ausilio dell’informatica sono molto piu efficienti nell’uso delle risorse, compreso il lavoro e l’intelligenza delle persone, di quanto non fossero i colossi d’un tempo. In questo futuro il lavoro recupera in dimensioni nuove una misura umana, perché l’informatica stessa ha preso come misura la persona piuttosto che imporgli le proprie, non importa se di forza o come esito d’un naturale processo di selezione artificiale.
Per altro, Umberto Curi ricorda che:
Karl Marx fa emergere (…) ambivalenza della tecnica al cuore della nostra società. I testi dai quali non si può prescindere a tal proposito sono la quarta sezione del libro primo del Capitale e quella parte dei Grundrisse, dei Lineamenti fondamentali dellacritica dell’economia politica, che è nota anche come “frammento sulle macchine”. Anzitutto è necessaria una sottolineatura mportante: Marx analizza la scienza e la tecnica non come modalità di conoscere, ma come modalità di produrre. Scienza e tecnica compaiono nella trattazione marxiana della quarta sezione del Capitale come ingredienti fondamentali del processo di trasformazione dell’organizzazione della produzione in quello che Marx chiama «il pieno sviluppo del capitale». Il capitale sorge storicamente come applicazione della scienza e della tecnica all’ambito della produzione ma ò’organizzazione capitalistica conosce una evoluzione per cui nelle prime fasi esiste ancora una sfasatura tra le modalità tecniche concrete di organizzazione della produzione e ciò che compare sotto il profilo del processo di valorizzazione del capitale. Per dirla in altri termini in origine c’è uno scarto tra le modalità concrete di svolgimento del lavoro – l’operaio che usa il martello per battere un chiodo – e lo stesso processo visto dalla parte della valorizzazione del capitale, dove è il martello, cioè il mezzo di produzione, che usa l’operaio per la propria auto-valorizzazione, per incrementare cioè il valore incorporato nelle merci. Lo sviluppo del progresso tecnico-scientifico tende a chiudere questa sfasatura. E qui (…) c’è una visione grandiosa e suggestiva, per cui Marx sembra esaltare anche le immani potenzialità del progresso tecnico-scientifico sotto la guida del capitale. Il filosofo ci rappresenta l’esito di questo processo attraverso una famosa espressione, quella di «pieno sviluppo del capitale», quando cioè anche dal punto di vista concreto è lo strumento che usa l’operaio e non l’operaio che usa lo strumento. Questa fase la si raggiunge in quello che Marx chiama «il sistema automatico di macchine»; rispetto ad esso, appunto, l’operaio è determinato come mera appendice!cosciente della macchina, vero soggetto della produzione. Qui si manifesta tutta la lungimiranza di Marx: egli coglie una tendenza che comincia con le prime forme storiche della cooperazione a metà del Seicento e trova il suo compimento in un’età che Marx vede avvicinarsi, quella del pieno sviluppo del capitale, dove non vi sarà più distinzione tra sottomissione formale e sottomissione reale del lavoro al capitale, e, anche dal punto di vista concreto, l’operaio non sarà più soggetto ma strumento del processo di auto-valorizzazione del capitale. Ma allora fin qui si potrebbe dire che in Marx la tecnica sia riconosciuta come forza produttiva sociale dalle potenzialità pressoché illimitate. A differenza del mito di Prometeo, ci troveremmo in presenza del riconoscimento incondizionato del potere della tecnica. Ma non è così: nelle stesse pagine in cui Marx descrive il pieno sviluppo del capitale, egli indica che nel pieno sviluppo è contenuta in nuce anche una contraddizione che porterà al collasso il sistema capitalistico di produzione. Quelle stesse potenzialità di piena affermazione del capitale rivestite dalla tecnica si ritorceranno contro l’organizzazione capitalistica della produzione. E Marx da questo punto di vista è estremamente rigoroso nell’indicare che «il capitale è la contraddizione in processo», perché da un lato esso non può che misurare la ricchezza sul tempo di lavoro necessario per la produzione delle merci, ma dall’altro lato questa misura appare miserabile rispetto al pieno sviluppo del capitale, dato che la tendenza del capitale è rendere sempre minore il tempo di lavoro socialmente necessario a produrre ricchezza. Che è esattamente ciò a cui stiamo assistendo oggi: lo sviluppo delle tecnologie, l’automazione dei processi produttivi, la robotica e l’informatica stanno riducendo grandemente il lavoro necessario, ma il capitale continua a – e non può fare a meno di – misurare sul lavoro necessario la ricchezza. (…) Rispetto a quelle che, da chi fa l’apologia del progresso tecnico-scientifico, sono descritte con tono enfatico come le sorti magnifiche e progressive, resta valido l’insegnamento delle radici classiche: ciò a cui fare riferimento, ciò che non viene cancellato da danni che annullano i vantaggi, ciò che resta è elpis, la speranza. Ed è quella che può accompagnarci a trovare la nostra strada all’interno del destino che sembra attendere ormai tutto l’occidente, il destino della tecnica.