Ci riferiamo ai mondiali di calcio per robot, concepiti tra 1996 e 1997 in Giappone, che ebbero particolare visibilità nel 2002, quando si svolsero per la sesta volta nel porto di Fukoka, contestualemente a quelli della FIFA. Obiettivo: portare «una squadra di robot umanoidi completamente autonomi a vincere una partita di calcio contro i vincitori della più recente Coppa del Mondo seguendo le regole ufficiali della FIFA entro la metà del ventunesimo secolo».
Riflette in proposito Galeano:
Qual è il sogno più frequente di impresari, tecnocrati, burocrati e ideologi dell’industria calcistica? Nel sogno, sempre più simile alla realtà, i giocatori imitano i robot. Triste segno dei tempi, il ventunesimo secolo sacralizza l’uniformità in nome dell’efficienza e sacrifica la libertà sugli altari del successo. «Uno non vince perché è valido, ma è valido perché vince», aveva constatato, già qualche anno fa, Cornelius Castoriadis. Non si riferiva al calcio, ma era come se fosse così. Vietato perdere tempo, vietato perdere: trasformato in lavoro, sottomesso alle leggi del rendimento, il gioco smette di essere gioco. Ogni giorno di più – come il resto delle cose – il calcio professionistico sembra governato dalla UNEBE (Unione Nemici della Bellezza), potente organizzazione che non esiste, ma che comanda. Obbedienza, velocità, forza e zero orpelli: è questo il modello imposto dalla globalizzazione. Si fabbrica, in serie, un calcio più freddo di un congelatore. E più implacabile di un trituratore. Un calcio robotico. Si suppone che questa noia mortale sia il progresso, ma lo storico Arnold Toynbee era già passato per molti passati quando ha commentato: «La caratteristica più costante delle civiltà in decadenza è la tendenza alla standardizzazione, all’uniformità». (E. Galeano, “Chiuso per calcio”)