Al solito, Graeber non ha mezze misure:
da molto tempo tra i capitalisti è popolare l’idea che il capitalismo sia nato insieme alla civiltà. A rendere ora questa idea gradita alla sinistra è soprattutto il fatto che può essere usata come un attacco all’eurocentrismo: se il capitalismo è ormai da considerarsi un traguardo, allora è alquanto arrogante da parte degli studiosi euro-americani pretendere che siano stati gli europei a inventarlo appena cinque secoli fa. In alternativa, la si potrebbe ritenere una posizione adatta ai teorici marxisti che lavorano in un’epoca in cui l’anarchismo sta rapidamente rimpiazzando le ideologie statiste come alfiere della lotta rivoluzionaria: se il capitalismo fosse nato con lo stato, sarebbe difficile immaginare di eliminare uno senza l’altro. Certo, il problema è che abbracciando questa posizione i teorici marxisti sono arrivati a definire il capitalismo in modo così ampio – per esempio, come ogni forma di organizzazione economica in cui degli attori chiave utilizzano i soldi per fare altri soldi – che diventa difficile anche solo pensare di eliminarlo. Inoltre, a pensarci bene, questa prospettiva non toglie l’Europa dalla sua posizione privilegiata. Sebbene i continuazionisti sostengano che il capitalismo non sia nato nell’Europa occidentale del XVII e XVIII secolo e che quindi quell’epoca non abbia segnato una grande svolta economica, affermano, però, che essa ha segnato una svolta intellettuale altrettanto decisiva, grazie a studiosi europei come Adam Smith che hanno scoperto l’esistenza di leggi economiche che (secondo quanto sostengono ora) esistevano da migliaia di anni in Asia e in Africa, ma che nessuno in precedenza era stato in grado di descrivere, o anche solo di notare. (…) Di solito, le definizioni di capitalismo si concentrano su uno dei seguenti aspetti: alcuni, come i fautori del paradigma dei MdP [modi di produzione – NdR], si focalizzano sul lavoro salariato; i continuazionisti, come è prevedibile, prediligono l’altro aspetto, che si basa sull’esistenza del capitale: ossia, di concentrazioni di ricchezza utilizzate esclusivamente per creare altra ricchezza e, in particolare, di un continuo processo di reinvestimento ed espansione senza fine. Se si sceglie la prima definizione è difficile sostenere che il capitalismo sia sempre esistito, dato che nella maggior parte della storia umana è piuttosto difficile trovare qualcosa che si possa descrivere come lavoro salariato. Non che non ci abbiano provato. I continuazionisti – come la maggior parte degli storici dell’economia, in realtà – tendono a definire il “salario” nel modo più ampio possibile, come pressoché ogni situazione in cui si dà del denaro a qualcuno in cambio di un servizio. Se analizzata nel dettaglio questa formulazione risulta chiaramente assurda: se così fosse, i re sarebbero lavoratori salariati in quanto dichiarano di offrire protezione in cambio di un tributo, e anche l’attuale Aga Khan sarebbe un lavoratore salariato al servizio della comunità ismailita perché ogni anno gli viene offerto l’equivalente del suo peso in oro o in diamanti per ringraziarlo delle sue preghiere in nome della comunità. È evidente che il “lavoro salariato” (a differenza, per esempio, del compenso ricevuto in cambio di un servizio professionale) implica un certo grado di subordinazione: il lavoratore o la lavoratrice deve essere in certa misura agli ordini del datore di lavoro. Questa è la ragione per cui, nel corso della storia, le persone libere – uomini e donne – hanno cercato di evitarlo, e il motivo per cui il capitalismo secondo questa prima definizione non è emerso per la maggior parte della storia. (…) nel mondo mediterraneo antico la contraddizione tra vita politica e commerciale era fortemente sentita. A Roma la maggior parte dei banchieri erano liberti; ad Atene quasi tutte le attività commerciali e industriali erano in mano ai meteci. La presenza di un’enorme popolazione di schiavi – pare che nella maggior parte delle città antiche fossero almeno un terzo della popolazione totale – ebbe un profondo effetto sull’organizzazione del lavoro. Se è vero che si trovano regolarmente testimonianze di situazioni che, a uno sguardo moderno, ricordano i contratti di lavoro salariato, a un esame più accurato si rivelano quasi sempre contratti di affitto di schiavi (lo schiavo, in questi casi, spesso riceveva un compenso fisso a giornata per il cibo). Gli uomini e le donne liberi, quindi, evitavano qualunque cosa assomigliasse al lavoro salariato, poiché lo vedevano come una forma di schiavitù a tutti gli effetti, un darsi in affitto. (…) Il capitalismo non è uno stato d’animo ma una questione di strutture oggettive che permettono di tradurre la ricchezza e il potere in forme astratte in cui possano espandersi e riprodursi all’infinito. (…) Si potrebbe allora concludere che il capitalismo moderno è, in realtà, una forma di schiavitù. E il fatto che i capitalisti moderni siano convinti di non costringere nessuno è irrilevante, dato che la questione centrale sono le strutture coercitive oggettive e non ciò che pensano gli attori. Un argomento del genere non sarebbe del tutto inedito: c’è un motivo se tanti lavoratori dei paesi capitalisti moderni scelgono di definirsi “schiavi salariati”. Ma nessuno storico dell’economia, che io sappia, ha mai proposto una lettura simile. I pregiudizi ideologici diventano lampanti quando si considerano non solo le tesi che vengono sostenute ma anche quelle che nessuno ha mai pensato di avanzare. (…) È il caso di spiegare qui che, secondo l’interpretazione marxiana classica della schiavitù come modo di produzione, la schiavitù prevede che una società rubi a tutti gli effetti il lavoro produttivo che un’altra società ha investito nella produzione di esseri umani (… ). È per questo che gli schiavi vengono sempre da un altro luogo (crescere uno schiavo dalla nascita è economicamente fattibile solo in circostanze straordinarie, come nel caso del boom del cotone nel sud degli Stati Uniti, creato dalla rivoluzione industriale britannica, e anche in quel caso in realtà non era sostenibile). Gli esseri umani, in effetti, per i primi dieci o quindici anni di vita sono praticamente inutili come lavoratori. Una società basata sullo schiavismo si appropria a tutti gli effetti degli anni di cura e educazione che un’altra società ha investito nella creazione di giovani uomini e donne in grado di lavorare, rapendone i prodotti per poi, il più delle volte, ammazzarli di lavoro in pochi anni. (…) gli schiavi rimangono merci commercializzabili che possono essere vendute e rivendute. Una volta acquistati, sono completamente agli ordini dei loro padroni. In questo senso, (…) rappresentano esattamente ciò che Marx chiamava “lavoro astratto”: comprando uno schiavo si compra la mera capacità di lavoro, che è anche ciò che acquista un datore di lavoro quando assume un lavoratore. Naturalmente, è questo rapporto di comando che spinge le persone libere di molte società a vedere nel lavoro salariato una forma di schiavitù e, quindi, a cercare di evitarlo in tutti i modi. (…) Si potrebbe dire, allora, che il capitalismo industriale sia nato veramente solo quando i due fenomeni si sono fusi. È legittimo ipotizzare che il motivo per cui i grandi mercanti alla fine adottarono il lavoro salariato in patria, anche nel settore industriale, non era che la schiavitù o le altre forme di lavoro forzato si fossero dimostrate inefficienti come forme di produzione, ma piuttosto che esse non creavano mercati efficienti per il consumo: agli schiavi si può vendere poco o niente; e, almeno a quei tempi, era difficile tenere la popolazione produttrice e quella consumatrice in due continenti diversi.(D. Graeber, “Le origini della rovina attuale”)