Supremazia cognitiva occidentale

Approccio che universalizza la cultura e la visione della conoscenza funzionali alla razionalità capitalistica ed è alla base – per esempio – dell’idea di sviluppo e sottosviluppo come stadi di un percorso indiscutibile e quindi del progresso inteso come crescita continua, incremento dei consumi e saccheggio della natura, considerata una delle forme del capitale.

Infatti,

il discorso convenzionale sullo sviluppo (…) vede il progresso economico come un passaggio dal non monetizzato al monetizzato, dal comune al privatizzato, dal locale al globale, dall’artigianale al prodotto di massa. In questa prospettiva, le tradizionali economie sociali e solidali sono considerate arretrate, improduttive e condannate all’invisibilità. (Nadia Johanisova e Markéta Vinkelhoferová – 54. Economia sociale e solidale, “Pluriverso. Un dizionario per il post-sviluppo“)

“la teoria sociale egemonica frammenta la società in sfere: economia, società, cultura e politica. Definisce l’economia come un sistema di mercato autoregolato che, lasciato alle proprie leggi, risolverebbe in modo ottimale l’allocazione delle risorse, compresa la forza lavoro” (Natalia Quiroga Diaz, 53. Economia popolare, sociale e solidale, ibidem)

Per contro, come esplicita Mellino:

(…) si può definire il paradigma postcoloniale come uno sviluppo del pensiero postmoderno finalizzato alla critica culturale e alla decostruzione delle nozioni, delle categorie e dei presupposti dell’identità moderna occidentale nelle sue più svariate manifestazioni. Questa prospettiva è ciò che determina inoltre la specificità dei post-colonial studies. La nozione di postcoloniale, da una parte, richiama un particolare approccio conoscitivo le cui premesse sono quelle della teoria postmoderna e, dall’altra, designa una condizione storica specifica, quella del postcolonialismo le cui caratteristiche sono per lo più quelle della post-modernità. In breve: postcoloniale diviene una metafora della condizione postmoderna.

Approfondisce Boaventura De Sousa Santos:

“Le correnti dominanti nelle epistemologie del Nord si sono concentrate sulla validità privilegiata della scienza moderna, sviluppatasi prevalentemente nel Nord del mondo a partire dal XVII secolo.
Queste correnti si basano su due premesse fondamentali. La prima è che la scienza basata sull’osservazione sistematica e sulla sperimentazione controllata è una creazione specifica della modernità occidentocentrica, radicalmente distinta dalle altre scienze che hanno origine in altre regioni e culture del mondo. La seconda premessa è che la conoscenza scientifica, in considerazione del suo rigore e delle sue potenzialità strumentali, è radicalmente diversa da altri modi di conoscere, siano essi laici, popolari, pratici, di senso comune, intuitivo o religioso.
Entrambe le premesse hanno contribuito a rafforzare l’eccezionalità del mondo occidentale nei confronti del resto del mondo, e, allo stesso modo, a tracciare la linea abissale che separava, e ancora separa, la società e la socialità metropolitane da quelle coloniale. Entrambe le premesse sono state esaminate criticamente, e in realtà tali critiche in realtà sono andate di pari passo con lo sviluppo scientifico fin dal diciassettesimo secolo. In larga misura, è stata una critica interna (..) [Un esempio] è senza dubbio quello di Goethe e delle sue teorie su natura e colore. Goethe era interessato allo sviluppo scientifico quanto i suoi contemporanei, ma pensava che le correnti dominanti, con la loro origine a Newton, fossero totalmente sbagliate. (…)
Le epistemologie del Sud vanno oltre la critica interna. Non sono tanto interessate a aggiungere una linea di critica in più, quanto a formulare alternative epistemologiche che possano rafforzare le lotte contro il capitalismo, il colonialismo e il patriarcato. (…) [Non ci può essere] giustizia sociale senza giustizia cognitiva. (…)
[I presupposti di base delle epistemologie del Nord] sono questi:
– la priorità assoluta della scienza come conoscenza rigorosa;
– il rigore, concepito come determinazione;
l’universalismo – concepito come specificità della modernità occidentale – che si riferisce a qualsiasi entità o condizione la cui validità non dipende da uno specifico contesto sociale, culturale o politico;
– la verità, intesa come rappresentazione della realtà;
– la distinzione tra soggetto e oggetto, conoscente e conosciuto;
– la natura come res extensa ;
– il tempo lineare;
– il progresso della scienza attraverso le discipline e la specializzazione;
– la neutralità sociale e politica come condizione di obiettività. (…)
[in nota]:
(…) il canone della filosofia occidentale (…) comprende quanto segue:
(a) un’adesione al razionalismo, l’opinione che la ragione (o razionalità) non sia solo il segno distintivo dell’essere umano – è ciò che rende gli umani superiori agli animali non umani e alla natura;
(b) una concezione degli esseri umani come esseri razionali capaci di ragionamenti astratti, di considerare principi oggettivi, e di comprendere o calcolare le conseguenze delle azioni;
(c) concezione sia dell’agente morale ideale sia del conoscente come imparziali, distaccati e disinteressati;
(d) una credenza nei dualismi fondamentali, come ragione vs emozione, mente vs corpo,
cultura vs natura, assolutismo vs relativismo, oggettività vs soggettività;
(e) il presupposto che vi sia un divario ontologico tra gli esseri umani e gli animali non umani e la natura;
(f) l’universalizzabilità come criterio per valutare la verità dei principi etici ed epistemologici.
(Karen Warren).

(…)Le epistemologie del Sud [invece] affermano e valorizzano (…) le differenze che permangono dopo che le gerarchie sono state eliminate. Mirano a un cosmopolitismo subalterno dal basso verso l’alto. Più che l’universalità astratta, promuovono la pluriversalità: un tipo di pensiero che promuove la decolonizzazione, la creolizzazione o il meticciato attraverso la traduzione interculturale.
(…) mirano a dimostrare che i criteri dominanti di conoscenza data per valida nella modernità occidentale, non riconoscendo come validi tipi di conoscenza diversi da quelli prodotti dalla scienza moderna, hanno portato a un epistemicidio di massa, cioè alla distruzione di un’immensa varietà di forme di conoscenza che prevalgono principalmente dall’altra parte della linea abissale, cioè nelle società socialità coloniali. Una distruzione di questo genere ha depotenziato queste società, rendendole incapaci di rappresentare il mondo come proprio nei loro termini, e quindi di considerare il mondo come passibile di cambiamento attraverso il loro potere e in funzione dei loro obiettivi. Tale compito è importante oggi come lo era ai tempi del colonialismo storico, poiché la scomparsa di quest’ultimo non ha portato con sé la fine del colonialismo come forma di socialità basata sull’inferiorità etnoculturale e anche ontologica dell’altro, ciò che Aníbal Quijano (…) chiama colonialità. La colonialità della conoscenza (come del potere) continua ad essere fondamentalmente strumentale all’espansione e al rafforzamento delle oppressioni causate dal capitalismo, dal colonialismo e dal patriarcato.

Ricorda Rachele Borghi che

Il progetto moderno è eurocentrico, coloniale, violento. Questi elementi non possono essere scissi e trattati separatamente. Per questa ragione si usa il termine colonialità, crasi tra modernità e colonialismo.
Catherine Walsh (2014) sostiene che la modernità sia vincolata all’egemonia, alla periferizzazione e alla subalternizzazione geopolitica, razziale, culturale ed epistemica che essa stessa ha creato a partire dal punto di vista eurocentrico. L’espansione europea coloniale non ha solo dato il via alla modernità e ai suoi corollari (progresso, evoluzione, sviluppo) ma ha creato un sistema-mondo combinando insieme economia (capitalismo), conoscenza (sapere scientifico), cultura (civiltà/civilizzazione), categorie in relazione di subalternità (razza, genere, classe, specie, religione, età). Questi elementi formano la modernità coloniale, una salamoia versata in un vaso (sistema-mondo), chiuso col coperchio (violenza e repressione) in cui tuttie (cetriolini) siamo completamente immersie.

Anche Origgi individua il problema:

La classe degli esperti è solita riprodursi in una situazione di grande omogeneità: stessi metodi, stessi criteri di prestigio e autorevolezza, stessi circoli (…) L’expertise, prodotto spesso lontano dalla vita reale, nei laboratori di ricerca, nei comitati vari, è spesso il frutto del pensiero di una classe dirigente che ha i suoi paraocchi, i suoi sistemi di valori e che tende a riprodursi senza mai mettersi in questione. Una classe dirigente intellettuale che, per esempio, fino a pochi anni fa, era composta prevalentemente da uomini bianchi occidentali. Il che non era senza effetti nefasti sull’oggettività della scienza, la rilevanza delle questioni prese in considerazione e la neutralità degli oracoli proferiti. Per esempio, una classe medica composta di soli uomini ha prodotto nei secoli un’ignoranza sistematica del corpo femminile, considerato nell’antichità come un corpo maschile meno sviluppato, una completa negazione di condizioni patologiche tipicamente femminili (come per esempio l’endometriosi, il cui riconoscimento come malattia è ancora oggi in discussione), che dipendevano solamente dall’assenza di donne nell’esercizio della professione.(…) E basta sfogliare un libro di storia della scienza per rendersi conto di quante ingiustizie epistemiche, un concetto coniato dalla filosofa Miranda Fricker (…) La mancanza di riconoscimento del privilegio epistemico che certe posizioni situate possono fornire a coloro che non sono esperti «certificati», ma che hanno conoscenze profonde di un territorio, di un’esperienza o di altro è alla base di quel fenomeno studiato nella filosofia contemporanea che va sotto il nome di epistemologia dell’ignoranza. Concetto sviluppato nel 1997 dal filosofo Charles Mills, l’epistemologia dell’ignoranza studia come alcune forme di costituzione del sapere contribuiscono a marginalizzare certi tipi di conoscenza e a cancellare, o semplicemente a rendere invisibile, ciò che da sempre era conoscenza disponibile a tutti. Spesso, questa attività di rendere invisibili alcune conoscenze contribuisce all’oppressione di una classe o di una categoria di persone da parte di chi detiene il potere. Ignorare sistematicamente nella produzione del sapere il punto di vista delle donne, delle classi subalterne, dei popoli indigeni, di chi ha esperienza diretta di un territorio, di una guerra, di un terremoto, significa creare ignoranza nel momento stesso in cui si crede di creare conoscenza18. Chi produce il sapere dovrebbe quindi rendersi conto dei suoi paraocchi, imparare a farsi delle domande sulla presunta neutralità e oggettività della conoscenza e non escludere a priori le possibili fonti di conoscenza costituite da chi sa per esperienza.

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