- In presenza di situazioni come il cambiamento climatico, la gestione neoliberista e autoritaria della pandemia, il lavoro uberizzato, la fine della democrazia parlamentare e i cinque stAlle, la manipolazione digitale estrattiva e standardizzante, la polarizzazione della ricchezza, il sovranismo guerrafondaio, le mattanze in mare e Afghanistan… e chi più ne ha ne metta, mi sembra folle ragionare sulla formazione e sull’istruzione a partire ciascun* dalla comfort zone del proprio percorso culturale e professionale “istituzionale”;
- Sono del tutto consapevole che molte delle cose che vado studiando/dicendo sono parecchio complesse e complicate, e – apparentemente – lontane dalla quotidianità, ma penso davvero che parlare di scuola partendo dalle sue dinamiche interne sia del tutto inutile, se non dannoso, perché allontana da ciò che resta della partecipazione politica;
- Questo vale sia per i paladini delle discipline come paradigma autosufficiente (e deresponsabilizzante) sia per i fanatici della pedagogia come orizzonte rassicurante (compresi i nipoti di Freire e di Freinet) sia per coloro che si inventano paradigmi culturali pseudo-unificanti (complessità, onlife, età dell’intelligenza distribuita e compagnie cantanti) sia – ovviamente – per i tecnocratici subordinati alla mercificazione della conoscenza e del lavoro;
- Per gli ultimi è scontato da che parte stare; tutti gli altri vogliono accuratamente evitare di affrontare la necessità del conflitto con la situazione corrente (il solo approccio che può emancipare almeno mentalmente e almeno qualcun*), per rifugiarsi ciascuno nel proprio universale, concepito come attivo e attivatore, e rivolto a un generico individuo astratto, fuori dal tempo e dallo spazio, a cui è affidato il compito di costruire una propria personale visione critica, che di critico rischia di non avere nulla, perché frutto invece dell’applicazione di canoni, storicamente definiti;
- Delle letture che vado facendo, mi colpisce e stordisce soprattutto la messa in discussione della razionalità, non certo negata, ma descritta nella sua esaltazione dell’eccezionalità dell’uomo misura di tutte le cose, che conosce, asservisce, trasforma, “ripara”, sana, risana e così via, in particolare con il potere della scienza e dei suoi derivati tecnici. In realtà, sfrutta, danneggia, disperde, avvelena, aggredisce e così via. Ora. Tutti i giorni. Da secoli e con “scambio ineguale”;
- E inventa nuovi saperi settoriali, separati, specialistici, da “addetti ai lavori” nella pratica e nella mediazione, che sia divulgativa o che sia didattica; l’importante è inserire in uno scaffale accademico, rendere imparabile in forma passiva, rendere ripetibile, verificabile;
- Per queste (confuse, frettolose e incomplete rispetto a quanto mi frulla in capo) ragioni mi piacciono gli “studi critici”: perché mettono l’accento su chi agisce culturalmente (chi studia), sullo scopo per cui lo fa (trasformare la situazione, almeno in termini di distanziamento esplicito dai bias mainstream) e sulla necessità di dare priorità alle conoscenze, ma in termini di intersezioni e interconnessioni – di interdipendenza culturale come risposta all’interdipendenza della biosfera e sociale – e non di percorsi separati e isolati l’uno dall’altro;
- Per questo mi convince l’idea (confusa, utopica, ma graffiante e illuminante almeno l’attuale vuoto) che al postumano (superamento della visione antropocentrica della biosfera) debba corrispondere il postdisciplinare, dinamico, sinergico e trasformativo a partire dalle istanze su cui e con cui si costruisce collettivamente e dai saperi depositati nei partecipanti all’eversivo convivio. Con il contributo del concetto di “intersezione” tra classe, sesso-genere, razza-etnia-cultura nei sistemi di dominazione.
Capire e apprezzare non significa aderire.
[Scritto di getto]